#Venezia73 – Tabl (Drum), di Keywan Karimi

Un film di stilizzazioni a tratte eccessive. Ma che coglie l’atmosfera, l’umore nella concretezza delle cose. Per Karimi la città parla. E non è un bel sentire. Settimana della Critica

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In Drum, Karimi sventra la struttura del noir, fino ad arrivarne allo scheletro, all’ossatura minima, il contrasto originario tra il bianco e il nero, la notte e la città… Il plot non ha più alcun peso specifico, un abbozzo sparso in frammenti, quasi un vago ricordo che si traduce in azioni per lo più senza senso apparente, in peregrinazioni senza meta. Chi è chi? Cosa fa davvero? E perché… C’è un avvocato, senza nome come tutti gli altri personaggi, che vive e lavora in uno scalcinato appartamento. Un giorno bussa alla sua porta uno strano tizio, che gli consegna un pacchetto. Da quel momento è costretto a vagare per la città, per sfuggire a degli uomini che gli danno la caccia. In poco più di novanta minuti, è tutta qui la trama “effettiva” che si dipana, si srotola in un filo sottile d’Arianna messo lì solo per non far perdere del tutto la strada. Privato di qualsiasi aggancio narrativo, il riferimento al genere resta allora nell’atmosfera. Quel senso di malattia fatale e di asfissia morale, che però non passa più attraverso le situazioni, torbide e desolte, o il disincanto dei personaggi, tutti senza dimensione interiore. Qui, forse, sta l’intuizione più interessante di Karimi. L’idea che l’atmosfera non è qualcosa di impalpabile, come un virus che circola nell’aria e investe il mondo. Semmai è il contrario, è un qualcosa che promana dalle cose stesse, come un flusso d’energia (negativa) che si propaga dalla realtà materiale, concreta, solida. La città, questa Teheran che inquadra Karimi, è una specie di terra bombardata, un freddo groviglio di case cadute, di appartamenti disfatti, di squallide case. È un tappeto (persiano) di strade deserte. Un mondo terremotato, attraversato da strane figure quasi deformi, personaggi che parlano innanzitutto con il corpo, i movimenti, i tic esasperati, quasi venissero fuori – giustamente – da Ciprì e Maresco. È tutto concreto, la crisi è concreta, la depressione è concreta… le leggi sui muri, sulle porte, nei ballatoi.

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È un’idea più polar che noir quella di Karimi, che sembra riportare a certi cieli plumbei di Melville, ai desolanti quartieri e palazzi di José Giovanni e Dernier domicile connu. E in qualche modo melvilliano è anche il modo di stare sull’azione, sulla preparazione apparentemente insignificante, sul dislocamento. Karimi ha, però, un senso dell’estetica tutto suo. E Drum è un film di stilizzazioni, di ambienti sottoposti al trattamento di un’illuminazione quasi teatrale, in cui la nettezza delle fonti e dei tagli di luce squarcia il buio come la fredda lama di un coltello, ma, al tempo stesso, ne prolunga i bracci, le spire. È un susseguirsi di lunghe riprese e di carrellate all’indietro che allargano gli sguardi (indiscreti), è una giungla di suoni “non umani” che rimettono in gioco il fuoricampo. Lo spazio… Per Karimi la città parla una lingua tutta sua. Del resto per averne cercato i graffiti, i segni tangibili in Writing on the City, ha subito lo stigma del regime, l’arresto, il carcere, le frustate. Ora torna con una strategia diversa, un approccio di “finzione” originale nel contesto del cinema iraniano d’autore. Forse c’è ancora un’insistenza estetizzante che segna una distanza, apre un margine di vuoto in cui si perde parte della ruvidezza del reale. Ma la strada è aperta. Purché si abbia la libertà di percorrerla.

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