Wes Anderson – Incendi nella stanza dei giochi

moonrise kingdom di wes anderson

Il cinema di Wes Anderson sembra  una casa di bambole in cui i personaggi si mettono in posa. Ma più di ogni altra cosa lo stile dell’autore texano è una  sofisticata gabbia per contenere le pulsioni ribollenti che emergono negli scatti di violenza, nei segni sul corpo che gli stravaganti costumi non possono nascondere del tutto.

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Che siano ambientati in un grande appartamento newyorkese o su un treno indiano, i film di Wes Anderson tradiscono la mano del proprio autore nel giro di pochi fotogrammi. Uno scambio di battute dagli spiazzanti tempi comici, una carrellata al rallentatore su un brano rock anni ’60, una ripresa dall’alto a caratterizzare un personaggio attraverso alcuni oggetti, la disillusione del maschio di mezza età nel volto di Bill Murray… L’elenco degli stilemi visivi, narrativi e attoriali caratteristici potrebbe continuare a lungo: pochi altri autori imprimono con altrettanta maniacale dedizione il proprio marchio di fabbrica sul tessuto della propria opera.


La domanda è se tale marchio di fabbrica non sia piuttosto una griffe, lo smalto giusto per far risaltare un cinema alternativo e modaiolo, autentico come quei capi d’abbigliamento finto trasandati che si comprano già lisi. L’idea che si tratti di un abito preconfezionato su una serie di misure – di coordinate estetiche – che corrispondono a un preciso gusto da soddisfare, viene maneggiata tanto dai detrattori, che vedono il cinema di Anderson come fin troppo leggero e superficiale, quanto da una parte degli ammiratori, che vuole godere superficialmente dei suoi film e dell’identificazione col loro immaginario. Il compiacimento di riconoscersi in un cinema indie, vintage, anche un po’ hipster. Il mondo dei suoi film sembra giustificare in parte lo stereotipo, a partire da un nucleo nostalgico che li connota come fughe nel passato, con il cuore fermo agli anni ‘60 e ‘70. I vestiti, gli oggetti, la musica, la fotografia… una cosmesi nostalgica tipo filtro di Instagram.


Sarebbe però un errore ridurre questo slancio all’indietro alla stregua di una gita fra le bancarelle di un mercatino vintage. Non è solo una questione di gusto, quanto un’autentica tendenza alla regressione, che trova il suo apice nell’amore incestuoso fra Richie e Margot ne I Tenenbaum, (definitivamente esplicita nella scena di intimità nella tenda montata nella cameretta, uno spazio immutato in vent’anni). Allo stesso modo sarebbe un errore considerare l’eccentrico apparato stilistico dei film di Wes Anderson come un calcolato manierismo: dato il contesto narrativo, appare piuttosto come l’estremo tentativo di imporre una forma di controllo su dei contenuti emotivi ribollenti, potenzialmente distruttivi, ingestibili.


L’impressione è che la geometria delle inquadrature, le divise da fumetto, il sovraccarico di dettagli minuti, creino una cornice e una gabbia di contenimento senza la quale i personaggi si sbriciolerebbero sotto la forza della propria emotività infantile, dei propri conflitti irrisolti. Adulti infantilizzati che non hanno mai superato i propri traumi affettivi o ragazzini che si appropriano di comportamenti adulti per fare fronte ai propri lutti: i protagonisti di Wes Anderson sono anime in pena che cercano l’affetto in modi anche maldestri e brutali, caratterizzati più di ogni altra cosa dalle ferite che portano. Ferite che spesso si riflettono nel corpo: il volto tumefatto di Owen Wilson di Darjeeling Limited e la mano fasciata di Susy in Moonrise Kingdom sono i biglietti di presentazione di personaggi con istinti autodistruttivi. Nonostante la fama di cineasta cerebrale, Anderson lascia che i conflitti degenerino nella rissa e in gesti violenti in tutti i suoi film; come nella scazzottata padre-figlio in Life Aquatic o quella dei tre fratelli di Darjeeling Limited. Moonrise Kingdom, in contrasto con la sua atmosfera fiabesca, è particolarmente esplicito nel mostrare il sangue di un ragazzino colpito da un paio di forbici o quello di Susy che si fa bucare i lobi con un amo da pesca da Sam, in un gesto di paradossale tenerezza.
Nell’ultimo lavoro di Wes Anderson sembrano trovare la perfezione i due registri visivi più tipici dell’autore: quello geometrico degli interni, scandito da panoramiche di precisione metronomica, e quello più libero e deliberatamente naif dell’avventura, valorizzato dalla fotografia di Robert Yeoman. Il risultato come sempre è quello di creare un piccolo mondo colorato, la cui scintillante bellezza di casa di bambole offre armonia e riparo dalle pulsioni violente dei suoi abitanti.

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