Woody Allen – A proposito di niente: Autobiografia

Abbiamo letto il memoir di Woody Allen. Nonostante l’ostracismo americano, il libro è edito in Italia da La nave di Teseo, e risulta essere l’ebook più venduto nel mondo in questo periodo

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Un misto tra Il giovane Holden e la voce narrante di Radio Days: così iniziano le prime righe introduttive dell’autobiografia di Woody Allen, nome d’arte di Allan Stewart Königsberg. Il nome datogli alla nascita è certamente più altisonante, al punto che potrebbe ricordare autori da lui tanto decantati come Fëdor Dostoevskij, Ernest Hemingway o Thomas Stearns Eliot, ma non è rappresentativo della sua persona. Al contrario il nome da lui scelto, più semplice e macchiettistico, rappresenta ciò che non vorrà mai essere: un intellettuale.

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Dedicarsi alla lettura di A proposito di niente, per i seguaci del regista, è come sfogliare le pagine di una storia già nota; il final cut di un vecchio film riportato in sala con aggiunta di scene tagliate e contenuti extra. Partendo dalla descrizione di una New York suggestiva e arrivando a quella molto meno idealistica di una famiglia semplice e stereotipata, continuando fino agli innamoramenti facili e agli inizi da comico, sembra che tra le righe si possano scorgere tutte quelle scene peculiari che hanno contraddistinto la sua arte e che, indirettamente e tramite le sue controparti fittizie, raccontavano la sua vita: dalla mamma di Alvy Singer che minimizza la teoria dell’accelerazione dell’universo in Io e Annie ai monologhi di Stardust Memories sul senso della vita fino all’aneddoto sulla fortuna in Match Point, alla lunga lista dei sui idoli più significativi partendo da Cole Porter in Midnight in Paris, passando per il suo personale scherno della religione e del senso dell’universo in Amore e Guerra. 

Il suo cinema caratteristico è una combinazione di finzione filmica e realtà vissuta, dove la conoscenza del reale conduce alla ricerca della magia, tanto agonizzata fin dalla giovane età, quando faceva il mago adoperando vecchi trucchi che si potevano trovare in una scatola di cartone, cosa che è poi divenuta l’origine di quel suo stile così iconico e unico. Non si hanno difficoltà quindi a immaginare le modalità di questo nuovo racconto, ovvero una sceneggiatura che è più un lungo monologo. Nel monologo si trova però un protagonista che si non si chiede più come mai la sua relazione amorosa non abbia funzionato, né prova più a cercare situazioni traumatiche freudiane nella sua infanzia – a sua detta felice – per spiegare fallimenti, cinismo, fobie, nevrosi e – citazione testuale – il suo essere un misantropo dalla vita emotiva disastrata e impeccabilmente pessimista. La spiegazione al suo ‘essere sé stesso’ è legata alla scoperta del concetto stesso di mortalità, su cui fa ironia in tutta la sua filmografia, che crescendo ha iniziato sempre più a vedere come la finitudine dell’esistenza risultante in una vita priva di senso.

Non ci sono né capitoli né una linea temporale lineare da seguire – la sua stessa nascita viene raccontata a pagina 9 – se non quando parla delle sue opere filmiche; l’autore tiene le redini della sua memoria, tendendo spesso a divagare e descrivere fatti irrilevanti o aneddotici, forse nel tentativo di giustificare la sua esistenza. Gli argomenti trattati sono tanti, gli stessi che sono imprescindibili dalla sua sensibilità: il cinema e l’arte in genere, così come lo studio della filosofia; la scelta della magia a discapito della realtà tanto detestata – motivo per cui parla spesso del suo immedesimarsi nel personaggio di Blanche del film che sente più vicino Un tram che si chiama Desiderio di Elia Kazan; l’amore per Manhattan, e l’ossessione per le donne e il jazz. Allo stesso modo sono tanti – se così si può azzardare – gli obiettivi che vengono presentati, come quello di abbattere numerosi luoghi comuni, soprattutto su sé stesso come personaggio, chiedendo di essere compreso anche per quanto concerne i lati della sua esistenza più scabrosi e altalenanti e per quelli più banali e non idealizzabili, per quanto paia rassegnato all’idea di star chiedendo fin troppa fiducia al genere umano.

La serietà nell’autobiografia si fa spazio a partire dal ’92, l’anno in cui girò Mariti e Mogli e in cui vennero fuori le prime accuse (morali) per la sua relazione con la maggiorenne Soon-yi Previn, sua moglie da più di vent’anni e figlia adottiva di Mia Farrow, sua compagna dell’epoca, con cui però non era mai stato sposato né aveva convissuto, nonché le ben più deterioranti accuse legali, sempre di abuso, verso Dylan Farrow, altra figlia adottiva minorenne dell’attrice e stavolta anche di Allen. Dettagli, testimonianze, citazioni, pensieri – e anche in questo scenario non manca il sarcasmo – segnano il tono del racconto, cambiandolo sensibilmente e sviando un po’ la traiettoria dal cinema per prendere quella dell’autodifesa, mostrando una parte dell’autore che, essendo lui noto ai suoi fan come eterno sdrammatizzatore, fino ad oggi non era mai pervenuta con così tanta gravità.

Allen, nonostante la sua percezione di una vita priva di senso e sottolineando che per lui non ha importanza il come verrà ricordato post mortem – perché si sa, diventando cenere non farebbe tanta differenza – racconta della sofferenza più tragica e reale da lui vissuta. Ridurre questa testimonianza a un semplice escamotage per giustificarsi, a cui in ogni caso l’autore avrebbe pieno diritto, non solo sminuisce l’intelligenza dell’artista, ma priva anche il pubblico di beneficiare della stessa, come tentato di fare negli Stati Uniti dove si è ostacolata la pubblicazione dell’autobiografia.

Quello che viene fuori dalle pagine più buie, oltre che un punto di vista di cui si aveva estremamente bisogno, è un invito alle persone a dare perlomeno il beneficio del dubbio – su una vicenda avvenuta molti anni addietro – soprattutto perché dichiarato innocente da due diverse indagini giudiziarie che all’inizio degli anni ’90 l’hanno scagionato da ogni accusa poiché i servizi sociali conclusero che non c’era stata nessuna violenza sessuale. Elogiando lo stesso #metoo, e comprendendone l’importanza, il regista newyorkese chiede solo che ci siano analisi e adeguata valutazione; a sottolineare un ideale di femminismo, quello che dovrebbe inneggiare alla parità e all’eguaglianza di giudizio, cosa che nel caso Allen-Farrow non è avvenuta.

L’opera è dedicata sin dalla prefazione alla moglie di Allen , e Soon-yi diventa un personaggio effettivo, caratterizzato, con un passato, un sogno, un fatal flow e uno scopo, con l’interesse per la sua storia che cresce nel lettore più di quanto potesse immaginare. Scappata di casa per la fame a soli 5 anni, Soon-yi ha senz’altro avuto una vita più movimentata, avventurosa e drammatica, oltre che essere una persona audace, molto più dello stesso Allen, che ricorda che a lui a quell’età “veniva ancora cantata la ninnananna”.

Alcuni appassionati, cinefili e non, potrebbero rimanere delusi da questo togliere spazio alla componente artistica e creativa della sua vita; questo però si è già riscontrato in passato quando il regista decise di spostare il suo sguardo da opere come Il dittatore dello stato libero di Bananas ad altre più drammatiche come Interiors, Stardust Memories o Settembre. Proprio Stardust Memories, uno dei film più cari all’autore, è l’esempio più calzante per spiegare alcune delle reazioni negative alla stessa autobiografia, essendo il racconto di un regista in crisi perché nessuno apprezza i suoi film più drammatici.

Gli altri luoghi comuni che l’autore sembra voler chiarire riguardano sul piano personale le relazioni con le donne e sul piano artistico il suo rimarcare di non essere un intellettuale, cosa che tiene a ribadire; le due cose sono inoltre legate a doppio filo. Fondamentalmente tutta la sua arte pervenutaci è merito – per sua stessa ammissione e senza peli sulla lingua – della sua ossessione per le donne, soprattutto per quelle brillanti e di talento che lo hanno ispirato nella vita e nell’arte. “Non erano banali. Avevano un’intelligenza seducente. Erano di sinistra, mentre le mie conoscenze in fatto di politica si fermavano a Lincoln che aveva abolito la schiavitù.”
Nato in un ambiente in cui le figure femminili erano la maggioranza nella sua famiglia e cresciuto tra ragazzi e ragazze del quartiere, dove i primi erano spesso attaccabrighe e le altre invece studiose e appassionate, non è difficile capire il perché di questo sua preferenza. Non a caso la maggioranza di ruoli importanti nella sua filmografia è recitata da donne, attrici estremamente caratteristiche, fuori dal comune e singolari ancor prima che bellissime; e non mancano nemmeno nei ruoli di produttrici e montatrici. L’amata sorella, Letty Aronson, ha prodotto molti dei suoi film. A suo dire non avrebbe appreso nulla senza di loro: il rifugiarsi nel cinema fu merito di sua cugina Rita, più grande di lui, che lo iniziò alla passione per la sala e, infatti, mentre tutti cercavano di insegnarli qualcosa, fu solo Hollywood ad attecchire.
Determinante il rapporto con la sua prima moglie che, quando entrambi avevano poco più di vent’anni, studiava filosofia all’università; fu lei, infatti, a trasmettergli la passione e la fame di conoscenza per la materia che ha poi caratterizzato il suo lavoro. Questo però non bastò a placare la crisi del loro matrimonio prematuro, su cui Allen non perde occasione per ironizzare: “capii di essere nei guai quando mi dimostrò filosoficamente che io non esistevo”. Tutto quello che poteva aiutarlo a uscire con una ragazza in giovane età entrava nel suo mondo. Fu così costretto ad abbandonare la sua formazione da lettore di fumetti (sì, proprio così) in favore di Dostoevsky, Balzac e Tolstoj. Peculiare il come, non volendo essere provocatorio, cita una lunga lista di tutto ciò che non ha visto, letto o non sia riuscito ad apprezzare e il come abbia sempre fatto affidamento sulle sue conoscenze superficiali per esprimersi, reinventarsi e colpire nel segno. “Rimarreste allibiti nel sapere tutto quello che non so, non ho letto e non ho visto.“

È consapevole del fatto che non si può sapere tutto, che non si può essere i migliori in tutto (il jazz è la sua passione alla pari di quella cinematografica, e nonostante sappia di non avere talento – il vero talento – suona ogni sera e si esibisce anche nei locali), e soprattutto è consapevole, dando vanto di una forte sincerità, che non ci si può aspettare che possa piacere ogni opera mastodontica esistente, o che ognuno è preparato o portato per comprenderle tutte. Si può non riuscire a finire un libro di Henry James, ma si possono capire e amare tutte le canzoni di Cole Porter. Si può non aver letto 1984 e Ulisse, ma essere uno dei pochi ad aver letto il romanzo di Joseph Goebbels (si, l’uomo che curava le pubbliche relazioni del Führer). E si può fare cinema senza aver mai visto lavori fondamentali come Ben Hur e Mr. Smith va a Washington. Così che Allen mette in risalto il fatto di non aver letto o visto opere tremendamente importanti per la società attuale, non vergognandosene. Nonostante ciò, perdura la sua tendenza nel mantenere un basso profilo come artista, e a non considerarsi né un genio né qualcosa di vicino – Einstein è un genio; Cechov aveva del genio, che riusciva a infondere automaticamente nelle sue opere in un modo che non si può imparare. ”E cosi, anche se qualcuno come me segue tutte le regole della drammaturgia, la maionese non viene.”

Ma a differenza di autori come Cechov, Kafka o Tolstoj, Allen sa come far ridere. Ridere con intelligenza, ridere con cultura e della cultura stessa, diventando un’inesauribile macchina per le citazioni alla pari di Oscar Wilde o Bukowski.

Allen ringrazia le persone con cui ha lavorato con piacere, chi gli ha insegnato qualcosa, chi gli ha tolto qualcosa; dai professionisti che gli hanno insegnato un mestiere alle donne che stima, come Diane Keaton, a cui ancora oggi chiede consiglio. Ma, soprattutto, ringrazia la sorte, che l’ha condotto dove si trova ora; sì, sicuramente è merito anche del duro lavoro – dice – accompagnato da un po’ di talento, ma soprattutto conoscenze e tanta fortuna. Non a caso del cinema parla principalmente da spettatore; si sente un cinefilo prima ancora che un cineasta. Come regista sembra voler chiudere un cerchio al termine di ogni lavorazione, passando a quella successiva senza più guardarsi indietro; ma da spettatore ricorda invece i suoi film, parlando di quelli che preferisce come La ruota delle meraviglie (per lui il più riuscito) o La rosa purpurea del Cairo, la cui protagonista più lo rappresenta, e Match Point, il lavoro che ha segnato un distacco tra il vecchio e un nuovo Allen.

La commedia dei primi film, la drammaticità di quelli subito successivi, la sperimentazione dei generi e i mondi stratificati del presente: ognuno di questi elementi racchiude un pezzetto dell’anima del suo autore; tutte le sue opere, aldilà di variazioni naturali di stile, sono creazioni autentiche e appassionate di Woody Allen, un autore che per ironia della sorte apprezza più i film che i suoi fan apprezzano meno. Segnale questo che induce a riflettere sul fatto che forse quello che cerca di spiegare in sincerità in queste righe sia davvero la sua reale persona, di solito pensata solo in un modo abbastanza idealizzato: un’anima comica, sempre alla ricerca della leggerezza e dell’ironia, e un’anima tragica e rivolta ai grandi tempi esistenziali della morte, dell’incapacità di comprendere il senso ultimo delle cose; ispirato da due estremi, dai film di Bergman ai film dei fratelli Marx, che hanno influenzato il suo cinema sia oggi che ieri. Forse è qua che risiede il suo rammarico più grande, ovvero il come possedere entrambe le facciate gli abbia impedito di realizzare un suo film capolavoro. A suo dire, naturalmente.

E, proprio come tutti i suoi film, l’autobiografia è cinica, provocatoria, esilarante, catastrofista, spietata e nichilista. Dal titolo riuscito, accende le luci su quella che è l’esistenza senza senso e tragicomica del suo protagonista, oggi ottantaquattrenne, che ha la stessa macchina da scrivere da sessant’anni (anche se non sa cambiare il nastro!). Una visione sincera di un sé stesso che non sarebbe dovuto diventare, e che si può conoscere solo attraverso i suoi film.
‘A proposito di niente’ perché, paradossalmente, si parla di tutto; e si parla di tutto proprio perché non si parla di nulla, perché nulla ha significato e niente è davvero importante.

 

Titolo originale: Apropos of Nothing. Autobiography.
Autore: Woody Allen
Editore: La nave di Teseo
Pagine: 400
Prezzo: 20, 90 euro

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