"Racconto storie che hanno a che fare con la trasformazione". Incontro con Jean-Jacques Annaud e Tahar Rahim, regista e protagonista de "Il principe del deserto"


Presentato in una affollata anteprima stampa l'atteso kolossal europeo Il Principe del deserto, costato più di 50 milioni di dollari e in uscita il 23 dicembre in Italia in "almeno 300 copie" come fatto sapere dalla Eagle Pictures. Ad accompagnare il film erano presenti il regista francese Jean-Jacques Annaud (veterano delle superproduzioni europee: da Il nome della rosa a Sette anni in Tibet) e il giovane attore di origine algerina Tahar Rahim già visto ne Il Profeta

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il principe del desertoPresentato in una affollata anteprima stampa l'atteso kolossal europeo Il Principe del deserto, costato più di 40 milioni di dollari e in uscita il 23 dicembre in Italia in "almeno 300 copie" come fatto sapere dalla Eagle Pictures. Ad accompagnare il film erano presenti il regista francese Jean-Jacques Annaud (veterano delle superproduzioni europee: da Il nome della rosa a Sette anni in Tibet) e il giovane attore di origine algerina Tahar Rahim già visto ne Il Profeta.

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Questo è il suo ennesimo film di viaggio nel passato attraverso l'epica: cosa ha pensato quando le è stato offerto di portare sullo schermo questa storia?

Annaud: Avrei voglia di rispondere "il passato è eterno". Amo viaggiare, amo andare in posti sperduti, amo le favole che segnino una distanza rispetto al tempo, sia passato che futuro. Il cinema mi fa sognare, serve a questo…

  

Innegabilmente vedendo questo film la memoria va al classico di David Lean Lawrence d’Arabia: anche se sono film molto diversi, ha sentito l'influenza di Lean?

Annaud: Lawrence D’Arabia non lo vedo da più di vent'anni e non volevo vederlo perché sapevo che prima o poi avrei fato un film nel deserto. Le mie influenze giovanili sono stati più registi giapponesi come Mizoguchi o russi come Pudovkin e solo dopo ho scoperto il cinema americano e il vostro Sergio Leone.

  

Omar Sharif ai tempi di Lawrence D'Arabia dichiarò di aver impiegato 4 mesi per imparare a cavalcare un cammello, a lei come è andata?

Rahim:  Innanzitutto voglio dire che sono stato lusingato dalla proposta fattami da Jean-Jacques. Ho amato questa storia, la rappresentazione che dà del medio Oriente. Il personaggio mi dava opportunità enormi e molta ampiezza di intervento, spero di lavorare ancora su queste corde. Per quanto riguarda la sua domanda: ha ragione Sharif, non è facile…è già difficile andare a cavallo, ma il cammello è peggio. Mi sono allenato per più di 1 mese e anche quando si crede di aver imparato non è certo come guidare uno scooter. Poi nella scena più importante sono anche caduto da cavallo: la caduta finale che vedete nel film è reale.

Annaud: è stata una giornata terribile, avevo paura di aver ucciso il mio protagonista, era a terra e tremava, in ospedale si è ripreso, ma il trauma non è stato da poco…

  

J. J. AnnaudIl film sintetizza un simbolico passaggio storico, il Medio Oriente di allora è paragonabile alla Libia di oggi?

Annaud: Il Medio Oriente era ed è una regione divisa, popolata da tribù, la caduta di un regime non cancella ovviamente i problemi. E in Libia c'è un grosso problema che difficilmente si risolverà in tempi brevi. Il mio film è atemporale, quindi si, in un certo senso parla anche della Libia di oggi. Il film è una favola valida sempre.

  

Rispetto a Il Profeta che differenze ci sono state nella costruzione del suo personaggio?

Rahim: Leggendo la sceneggiatura c’erano evidentemente molte chiavi di interpretazione. Ma Auda è un personaggio fondamentalmente positivo, supera la sua fase infantile e si scopre uno stratega. Mentre il protagonista de Il Profeta è più istintivo e nasconde lati oscuri molto più profondi. Due personaggi con molte differenze.

 

Dopo Due fratelli torna ora a girare con grandi star, come decide quale sarà il prossimo film?

Annaud: fondamentalmente decido sulla base del mio istinto. Ma spesso mi accade di raccontare storie che hanno a che fare con la trasformazione, non mi interessa in che genere, faccio film molto diversi, ma l’aspetto comune è la trasformazione. Il cambiamento che avviene nel viaggio dei miei personaggi.

 

Quella de Il Principe del deserto è una tematica scottante, a rischio di incomprensione, come si è posto in questo terreno minato?

Annaud: Ho cercato di essere prudente e onesto, mi sono circondato da grandi specialisti del mondo arabo in generale. Avevo fatto la stessa cosa per Sette anni in Tibet. Credo che quello che si possa vedere nei miei film è proprio l’andare incontro a culture o idee, le più disparate, anche se a volte non condivido le gesta dei miei personaggi.

 

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