Ferito a Morte. Sentieri Selvaggi intervista Roberto Andò

Per il regista palermitano, Cinema e Teatro sono vasi comunicanti che proprio nei suoi ultimi due progetti, sembrano in grado di intrecciarsi per raccontare il binomio tra realtà e rappresentazione

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Roberto Andò, regista, scrittore e sceneggiatore italiano, comincia a lavorare nel mondo del cinema come assistente di Francesco Rosi, Federico Fellini, Michael Cimino e Francis Ford Coppola. Nel corso della sua carriera si dedica alla letteratura, alla critica e al teatro per cui esordisce nel 1986 con La Foresta – radice-labirinto, spettacolo liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Italo Calvino. Per il cinema realizza, nel 2000, Il manoscritto del principe, film prodotto da Giuseppe Tornatore che gli vale la nomination ai David di Donatello come miglior regista.

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La sua prolifica produzione artistica, che prosegue ininterrotta fino ad oggi, lo vede impegnato su diversi fronti: cinema, teatro, letteratura. Queste arti per il regista palermitano sono come vasi comunicanti che proprio nei suoi ultimi due progetti, Ferito a Morte e La Stranezza, sembrano in grado di intrecciarsi per raccontare il binomio tra realtà e rappresentazione.

La conversazione con Andò parte proprio dallo spettacolo Ferito a morte, trasposizione teatrale firmata da Emanuele Trevi, del capolavoro del 1961 di Raffaele La Capria: romanzo sulla lotta tra natura e storia, sugli amori mancati, sui ritorni e i rimpianti; ma anche capolavoro di stile, suono e musica in cui come ammette l’autore, «il vero protagonista è il tempo: il tempo della giovinezza».

Vorrei iniziare quest’intervista riprendendo la sua conversazione con Raffaele La Capria di cui ha parlato in diverse interviste. La Capria stesso la invitò a portare in teatro “Ferito a morte”, considerando il suo romanzo più materia per il teatro (il romanzo era già stato adattato per il grande schermo nel 1961 con il film Leoni al sole). Lei ritiene che nel processo di trasposizione dalla parola all’immagine, esistano storie per il teatro e storie per il cinema? E in cosa si misura questa differenza?

Ovviamente dipende dal tipo di scrittura che offre Ferito a Morte. Un romanzo che possiamo definire un archetipo perché si muove nel solco di una tradizione novecentesca che passa da William Faulkner fino a Virginia Woolf, James Joyce e Marcel Proust, ma che in realtà possiede una sua dimensione già da classico, fin dal suo primo comparire. Quindi, questa scelta in astratto non significherebbe niente. È nel concreto che bisogna calare questa opportunità.

Sia nel caso di Ferito a Morte, un romanzo portato in Teatro, sia nel caso de La stranezza che invece è una scrittura portata al Cinema, si tratta di convocare la realtà di un luogo. Questo luogo nel caso di Ferito a morte è un luogo esclusivamente mentale, è un racconto che si muove nella penombra della mente. Nel caso de La stranezza si tratta, invece, dell’incontro della realtà con la mente. La mente di uno scrittore (Pirandello) al lavoro, in fase di creazione. In questo senso, riveste un’importanza fondamentale la flagranza dell’incontro con la realtà. Questo mondo del teatrino amatoriale diventa l’occasione, il pretesto, per mettere a fuoco questa idea, permettendole di rivelarsi allo stesso Pirandello.

Nel caso di Ferito a Morte, penso che La Capria, nella scrittura del romanzo, in molte occasioni (come nel capitolo dedicato ad un pranzo di famiglia) si diverta a dialogare con una realtà teatrale che lo precede, nello specifico con Eduardo de Filippo. E quindi è come se cercasse un tono che faccia da contrappunto a quel modo di lavorare di Eduardo intorno alle stanze da pranzo e le tavolate di famiglia. Io ho cercato di portare questa scelta all’estremo perché ho deciso di scomporre il tavolo da pranzo in tante sedute singole. Ogni commensale si trova da solo e la dinamica del dialogo a tavola acquista la dimensione di tanti soliloqui.  Però, nel romanzo di La Capria, c’è già quest’idea molto forte di un’orchestrazione di voci, è la natura stessa della scrittura che mi ha portato a queste scelte.

Quindi nella scena da lei appena descritta lo spazio che ciascun personaggio si ritaglia è come se diventasse la rappresentazione visiva delle voci nel romanzo di La Capria?

È come se ci fosse un pranzo scomposto, si tratta di uno switch totale rispetto al cliché del pranzo a tavola che a Napoli è rappresentato da Eduardo, ad esempio, in Sabato, domenica e lunedì in cui tutto si svolge intorno alla tavola. Anche qui si svolge tutto intorno alla tavola, ma in questo caso, anche se ci troviamo di domenica in casa De Luca, si tratta di una “commedia esplosa” dove ogni voce diventa monologo, anche se intraprende apparentemente un dialogo con l’altro. Quindi plasticamente ci sono dei tavoli, ogni passaggio da monologo a monologo è come se fosse un primo piano cinematografico, quando do la luce ad uno dei personaggi è come facessi un movimento con la macchina da presa.

Il romanzo di La Capria procede per istantanee, una notte in spiaggia, una mattinata in barca, frammenti privi di una qualsiasi consequenzialità temporale. In una recente intervista lei ha spiegato come la frantumazione non abbia molto a che fare col cinema ma con la letteratura e col pensiero.

C’entra anche con il cinema, ci sono un sacco di esempi che si possono fare al riguardo. Diciamo che a me è sembrato molto più interessante, per certi versi anche sfidante per la mia idea del teatro, proprio perché mi attirava l’idea di sfruttare questa occasione per smontare la convenzione teatrale. L’idea di convocare i luoghi che la mente perlustra nella ricognizione solitaria di una persona che sta per partire da Napoli e riconsidera la sua vita, trasposta in teatro per me era sfidante. Anche perché non è per niente scontato ed è necessario inventare una diversa lingua teatrale. Come si fa a rappresentare la presenza del mare? Come si fanno a rappresentare tanti luoghi che cambiano e nello stesso tempo questo non luogo che è la mente? Ecco, tutte queste domande sono alla base del mio lavoro insieme a Emanuele Trevi sul testo e poi sulla scena. Questo processo può essere portato anche al cinema ma è chiaro che se io devo portare il mare a Teatro è una qualcosa di molto più complicato di quanto non lo sia al cinema dove posso convocare il mare in qualsiasi modo.

Vorrei utilizzare ancora questo concetto della frantumazione per collegarmi ad una riflessione più ampia sul cinema e sul teatro all’interno della contemporaneità. Ci troviamo in una realtà mediale visiva dominata dalla frantumazione dell’immagine. Quotidianamente, anche grazie ai social network, riceviamo una quantità di immagini potenzialmente infinite, slegate tra di loro. In questo nuovo ecosistema dell’immagine, trova che il cinema (come il teatro) che ci fornisce una visione continuativa di una/due ore sia ancora uno strumento adatto a raccontare questo nuovo tipo realtà?

Certamente, perché il cinema continua a essere il luogo dove dare un senso alla vita, così come può esserlo il teatro ovviamente. La scommessa è sempre quella. È chiaro che questa frantumazione, questa invasione di immagini, a cui lei fa riferimento, cambia il gioco.

Per esempio, queste due mie opere che abbiamo citato sono riferite a un’epoca in cui non c’era tutto questo. La stranezza è ambientata nel 1920, La Capria si muove in un arco di tempo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. In entrambi i casi un’epoca predigitale, in cui al massimo, c’era la radio o il cinema, mentre la televisione stava muovendo i suoi primi passi. Quindi, stiamo parlando di un altro tipo di frantumazione, novecentesca, più vicina a quella che propone Joyce. Una sorta di monologo interiore che rappresenta un flusso di coscienza, con delle sue regole precise.

Oggi, a fronte di questa invasione, il cinema ha una responsabilità selettiva, quella di organizzare un senso. E, in questo, credo che ci sia stata una continuità da quando è nato.

Poi, chiaramente cambiano gli strumenti: il digitale apre anche delle possibilità espressive vertiginose che prima non c’erano. Però, per quanto concerne il gesto artistico, il cinema è rimasto la stessa cosa.

Obsolescente è, invece, la modalità di fruizione del cinema. Questo desiderio di allucinazione durante la mia infanzia era rappresentato dalla sala ed era testimoniato dal desiderio di sedersi al buio per immergersi nelle allucinazioni che lo schermo proponeva. Oggi la maggior parte dei giovani fruisce il cinema in modo diverso ma possiede sempre la stessa sete di allucinazione. Anche questa fruizione spezzettata diventa parte del gioco. Quindi, il discorso lo collocherei più sul piano della fruizione che non sul piano espressivo.

A proposito di fruizione e di sala, in molte interviste è emersa la riflessione meta-cinematografica che lei stesso definisce inconscia sul ritorno del pubblico che con La stranezza è ritornato a popolare i cinema. Qual è secondo lei il ruolo dello spettatore in una rinnovata stagione cinematografica post-pandemica? La sala è ancora il luogo più autentico della visione?

Assolutamente sì, è curioso perché io mi sono accorto solo dopo averlo visto ed essere stato sollecitato dalle domande di chi lo guardava che è anche un film sul pubblico. In maniera inconscia, forse anche dopo questo lungo periodo di isolamento che la pandemia ha rappresentato, questo film ripropone il pubblico in un ruolo attivo. Sia nella parte che riguarda il teatrino popolare dove è il pubblico “il personaggio in cerca d’autore”, sia nella scena in cui il pubblico del Teatro Valle reagisce furiosamente alla pièce di Pirandello perché non la capisce, abbiamo un pubblico attivo. Un pubblico che si prende la briga di intervenire oppure di interrompere la recita, di interloquire con gli autori. Da questo punto di vista è come se inconsciamente io avessi voluto in qualche modo raccontare una fase che prelude ulteriormente ad un cambiamento.

Per quanto concerne la seconda domanda, autentico è una parola che non capisco, non so se è il luogo che prevarrà ma sicuramente è il luogo con cui è nato il cinema ed, in questo senso, chiaramente autentico. Esisteranno sempre film di formazione della sala, ad esempio Empire of Light di Sam Mendes, un film dove al centro c’è di nuovo la sala, come prima lo era stato Nuovo cinema Paradiso. Non so se il cinema prevarrà, soprattutto in Italia, dove mi sembra che si sia radicalizzato un metodo di fruizione diverso, un processo che mi sembra segno del nostro tempo.

Il suo film parla dello stretto rapporto di reciproca influenza tra ispirazione artistica e realtà, soprattutto in un ecosistema come quello siciliano dove dramma e vita sembrano essere le due facce della stessa medaglia. Come si configura questo rapporto nella sua di quotidianità?

Sono sempre stato molto attratto da questo momento in cui uno scrittore, un creatore vive contemporaneamente una solitudine e un bisogno, anche allucinatorio se vogliamo, di attingere alla realtà, creando un dialogo con sé stesso e un dialogo con i propri personaggi.

Sia ne La Stranezza sia ne Il manoscritto del principe, film dedicato alla figura di Tomasi di Lampedusa quando scriveva Il Gattopardo, ho cercato di raccontare questa dinamica.

È chiaro che da scrittore e da regista vivo continuamente questo stato. Chiunque abbia a che fare con questa fase della creatività sa che è interdipendente da una solitudine estrema e da un bisogno vitale di attingere alla realtà, al concreto. È un’oscillazione continua.

Penso che il mio sia un film sui fantasmi e, in questo senso, credo sia legittimo pensare che molti dei fantasmi a cui attingiamo si trovino nella realtà come i due personaggi che incontrano Pirandello, Onofrio e Bastiano.

A suo modo anche Ferito a Morte è uno spettacolo sui fantasmi…

Certo! Anche Ferito a morte potrebbe essere assolutamente uno spettacolo sui fantasmi, totale. Perché questo convocare nella mente personaggi e luoghi di una vita, rivisti in questo nastro che La Capria sosteneva fosse “come riavvolgere un film al contrario” significa convocare dei fantasmi. Nutrirsi di queste voci e allucinazioni distorte dal tempo e dallo spazio vuol dire quello: fare i conti coi fantasmi.

Questa doppia dimensione che convive nel romanzo di La Capria, in grado di intercettare da un lato la vita nel suo farsi e dall’altro la malinconia del ricordo, come si configura nel suo spettacolo? Vita e racconto si confondono a tal punto che sorge spontaneo chiedersi quale rappresentazione sia vita e quale racconto.

Lo spettacolo è un’unica grande dissolvenza incrociata tra quello che “si sta facendo” sotto i nostri occhi e quello che sta andando via. Anche nella messa in scena, i personaggi che rappresentano queste due dimensioni (ricordo e presente) si incrociano, si scambiano di posto.

Il racconto rimeditato ritorna al punto d’inizio. La mia intenzione era quella di mostrare la compresenza tra questi fantasmi, il modo in cui sfilano le persone sulla balconata e il modo in cui ballano, è inseguire quell’aspetto postumo che c’è nella vita di ognuno di noi. Cerchiamo di catturarlo, però, poi ci accorgiamo che è già passato.

Pirandello, padre del teatro moderno, lei decide di raccontarlo attraverso lo sguardo di una macchina da presa, La Capria, scrittore che ha avuto molteplici adattamenti cinematografici, lei decide di portalo in teatro. Il suo cinema racconta il teatro, il suo teatro racconta la letteratura e la letteratura racconta il cinema e il teatro. Queste arti sono come vasi comunicanti per lei. È il compendio di questi strumenti che la aiuta a comprendere definitivamente la realtà che la circonda?

Assolutamente sì, in fondo questo film, La stranezza, è stato un modo di metterle tutte insieme. Anche perché è la prima volta che vengono unite, in questo modo, la letteratura, il teatro e il cinema. Questo gioco di vasi comunicanti, che è il mio modo di passare dall’una all’altra disciplina e di trovare l’occasione, a seconda di quale storia sto raccontando, per usare un vaso o un altro, in questa circostanza, è stato facile farlo confluire in un’unica opera. E, in tutto questo, è affascinante pensare che Pirandello sia stato uno scrittore che ha avuto a che fare col cinema, che ha scritto un romanzo sul cinema e che ha immaginato una sceneggiatura dei Sei personaggi in cerca di autore per Murnau, mica il primo venuto insomma…

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