L’età dell’innocenza, di Martin Scorsese
Dal romanzo omonimo di Edith Wharton, un film di straordinaria complessità e intensità nel suo eccesso controllato ed elegante inconsistenza. Strepitosi gli attori, a cominciare da Daniel Day-Lewis
Martin Scorsese una volta lo ha definito il suo film «più violento». Eppure stavolta non ci sono i “suoi” gangster, ma l’altolocata società newyorchese della seconda metà del XIX secolo. Si tratta, in effetti, di una violenza diversa, più sottile, “silenziosa”, sottotraccia. Dunque sociale, culturale. psicologica. Annidata dentro il conformismo dei rapporti, le gabbie simboliche delle convenzioni, l’ottusa immobilità di un sistema di apparenze illusorie. E il regista la coglie, costruendola, conferendole forma in un insieme che si dà come costante messa in scena, rappresentazione. Un sontuoso e posticcio teatro dove il desiderio, la passione, è anomalia non consentita.
Scorsese spiega − in una intervista rilasciata a Laurent Tirard − che il dovere di un regista è quello di «raccontare la storia che vuole raccontare, il che significa che bisogna sapere di che cosa si sta parlando. […] L’età dell’innocenza potrebbe apparire in contraddizione con questo ragionamento perché non ho mai vissuto nell’alta società e tanto meno a fine Ottocento. In questo caso, ho usato emozioni che conoscevo, collocandole però in un mondo che volevo esplorare e che mi affascinava».
Film tra attrazione e repulsione, spietato e doloroso, tratto dall’omonimo romanzo scritto nel 1920 da Edith Wharton, prima donna a vincere il Premio Pulitzer. Newland Archer (Daniel Day-Lewis), giovane avvocato, e May Welland (Winona Ryder), appartenenti a due fra le famiglie più potenti della città, sono fidanzati e presto si sposeranno. Il ritorno dall’Europa, però, della cugina di May, Ellen Olenska (Michelle Pfeiffer), in fuga da un matrimonio disastroso, sconvolge pian piano la vita di Newland, sempre più innamorato, e corrisposto, dalla donna, ma al contempo irrigidito da quei dogmi sociali allergici all’istintiva libertà, all’essere fuori norma.di Ellen. Che poi andrà via, lontano, lasciando Newland − col passare del tempo, dei decenni, marito e vedovo con figli − nella sua disperata e muta solitudine.
Il kitsch floreale dei titoli di testa firmati dal grandissimo Saul Bass − impegnato in precedenza in Quei bravi ragazzi e Cape Fear. Il promontorio della paura, per tornare poi in Casinò − insieme a un avvio riecheggiante, e non a caso, quello del Visconti di Senso, già racchiudono in qualche modo la splendida complessità dell’opera nel suo eccesso controllato, necessario, che non è mai programmatico o sterile, ma che si fa discorso. La macchina da presa è occhio meticoloso sugli oggetti, sui corpi, sugli spazi, il suo movimento morbido, la sua sinuosa, felice coreografia è in realtà feroce svelamento; i personaggi non hanno anima, altro non sono che mere funzioni, riflessi. Della loro elegante inconsistenza. Dei loro sontuosi saloni. Dei loro riti. E, alla fine, Quei bravi ragazzi, quello sguardo sul mondo, non è poi così lontano.
Un cast eccezionale (e cameo del regista nel ruolo di un fotografo), con Daniel Day-Lewis in stato di grazia, che tornerà a collaborare con Scorsese nel 2002 − dopo una lunga parentesi di assenza dallo schermo − in Gangs of New York. Sarà William “Bill il macellaio” in una nuova incursione ottocentesca. Ancora la città di Martin, del suo cinema. Cinema che torna e ritorna su se stesso, al suo cuore.
Premio Oscar per i migliori costumi (Gabriella Pescucci)
Golden Globe per la miglior attrice non protagonista (Winona Rider)
Titolo originale: The Age of Innocence
Regia: Martin Scorsese
Interpreti: Daniel Day-Lewis, Michelle Pfeiffer, Winona Ryder, Mary Beth Hurt, Geraldine Chaplin, Stuart Wilson, Jonathan Pryce, Richard E. Grant
Durata: 136′
Origine: USA, 1993
Genere: drammatico