Filmmaker Festival 2023 – Dialogo tra cinema del reale e trasfigurazione dell’immagine

Il racconto dal festival milanese di due opere in grado instaurare un dialogo generazionale tra forme del passato e suggestioni del futuro, tra cinema del reale e trasfigurazione dell’immagine

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Si è conclusa l’ultima edizione di FILMMAKER 2023, il festival internazionale di cinema che, a Milano dal 1980, si conferma importante punto di riferimento per chi voglia scoprire o riscoprire i grandi nomi del cinema del reale, conoscere i film-maker del futuro, riflettere sull’attualità, indagare le nuove frontiere dell’audiovisivo.

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Abbiamo seguito il concorso internazionale, sezione fondamentale nel programma festivaliero, in grado di porsi come mappa del tempo presente ma, allo stesso tempo, con lo sguardo rivolto al futuro. Dieci titoli, tutti in anteprima italiana o mondiale, nei quali giovani autori e nomi di primo piano del panorama cinematografico mondiale azzardano nuove traiettorie dell’immaginario e diverse narrazioni del mondo senza distinzioni di formato, genere o durata. Abbiamo scelto due opere in grado instaurare un dialogo generazionale tra forme del passato e suggestioni legate al futuro, giocando tra cinema del reale e trasfigurazione dell’immagine. Stiamo parlando di Le Fardeau di Elvis Ngabino e Background di Khaled Abdulwahed, due lungometraggi che si sono aggiudicati rispettivamente il Premio Filmmaker 2023 e il Premio della Giuria Giovani.

Cominciando da Le Fardeau, il secondo lungometraggio di Elvis Sabin Ngaïbino, arrivato dopo l’ottimo Makongo (anch’esso presentato in concorso a Filmmaker nel 2020), non si può che iniziare ad intavolare uno dei tanti possibili discorsi sul cinema di Ngaïbino muovendoci dall’enorme portata sociale che la visione del film porta con sé. Se la descrizione della lotta per la cultura e l’educazione era il punto di sguardo centrale in Makongo, con Le Fardeau il tema diventa la lotta contro lo stigma sociale in una parte di mondo in cui la legge divina sembra controllare ancora le dinamiche sociali. Il film, ambientato a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, apre allo spettatore una finestra sulla vita travagliata di Rodrigue e Reine, marito e moglie che, con i loro tre figli, si guadagnano da vivere grazie ad una magra produzione di farina di manioca. Entrambi sono fortemente legati alla comunità cristiana evangelica di cui fanno parte con grande passione. Anzi, Rodrigue vorrebbe addirittura diventare pastore, anche per permettere alla famiglia una vita più agiata. Ma quel fardello, evocato con grande lungimiranza dal titolo, è il segreto con cui la coppia deve confrontarsi quotidianamente. Entrambi sono sieropositivi e non possono dirlo praticamente a nessuno, in particolar modo a chi frequenta la parrocchia. Lo stesso pastore più volte affronta il tema dell’Aids parlando di ‘punizione divina’. Il fardello, quindi, non è soltanto il peso di convivere con una malattia logorante, per altro praticamente impossibile da combattere nelle condizioni economiche in cui si trovano i due coniugi, ma anche relazionarsi ad un’istituzione religiosa amata, cercata ma, allo stesso tempo, imbevuta di pregiudizi e bigottismo. La parabola sociale di Rodrigue e Reine si conclude con un monologo liberatorio e un’inquadratura finale, capace di restituire tutta la modernità di un cinema in ascesa come quello africano, desideroso di raccontare la propria storia, attraverso il proprio sguardo.

Passando a Background, l’opera di Khaled Abdulwahed (tornato anche lui a Filmmaker dopo il 2020 quando aveva presentato il suo Purple Sea) sviluppa un’ambivalenza di significato nel rapporto tra audio e video. Da una parte c’è quello che ascoltiamo, ossia la conversazione al telefono (o meglio, il tentativo di una conversazione) tra il regista, rifugiato politico in Germania, e il padre, rimasto in Siria; dall’altra parte c’è la ricostruzione, attraverso immagini conservate dalla famiglia e reperti ritrovati in biblioteche o archivi, del passato da studente di ingegneria del padre di Khaled. Questi, infatti, sessant’anni prima, quando era un ragazzo, aveva soggiornato nella DDR, più precisamente a Lipsia (dove adesso Khaled abita con la sua famiglia) e a Dresda. Come studente era stato invitato in qualche programma di scambio di studi tra paesi “amici”, quali erano allora la Germania socialista e la Siria. Con il passare dei minuti, la ricostruzione del collage fotografico che vede il ‘giovane padre’ posare in alcune fotografie in giro per l’Europa socialista, sostituisce completamente lo spazio della memoria tramandata via voce, sia per le pessime condizioni di rete nel luogo in cui si trova l’anziano padre, sia per le sue stesse condizioni fisiche, che si aggravano sempre di più, fino all’inevitabile dipartita. A quel punto sono le immagini, o meglio, quel ‘collage di immagini’ che inizia a trasformarsi, sovrapponendo i singoli frammenti fotografici tra un documento e un altro. Le immagini del padre, giovane, in forze, pieno di aspettative per il futuro vengono reinserite, attraverso l’uso della tecnologia, “al centro di una geografia che oggi lo esclude.” Il mondo, d’altronde, è cambiato, la storia ha svolto il suo corso. Ed è proprio il rapporto con la storia di un paese dilaniato dalla guerra e dal terrore del regime di Assad che impedisce a padre e figlio di abbracciarsi e di raccontarsi, uno di fronte all’altro, la propria storia. Su questo vuoto materiale di corpo e voce lavora Abdulwahed, realizzando una necessaria e sentita opera di recupero, densa, anche e soprattutto, nella sua portata concettuale.

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