Five Nights at Freddy’s, di Emma Tammi

Tratto dall’omonimo videogioco indie horror, accende delle ottime intuizioni riguardo il conftonto sguardo-verità. Ma la forza del linguaggio resta sempre di contorno, esaurendosi troppo in fretta

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Ricordate quando nel 2020 vennero diffuse le prime immagini del design di Sonic, dell’adattamento live action: Sonic The Hedgehog? L’impatto che la malriuscita “umanizzazione” del volto di Sonic ebbe tra il pubblico fu seguito da un così ampio clamore da parte dei fan che il regista stesso, e tutto il team dietro il film, furono costretti a ricostruire da zero quel personaggio – o meglio, il volto di quel personaggio. Quello fu un caso segnante nell’affermarsi di una certa teoria nota come uncanny valley, teorizzata tra le pagine della rivista Science dallo scienziato giapponese esperto in robotica Masahiro Mori nel 1970. Quel saggio, The Uncanny Valley appunto, oggi più che mai torna ad essere intercettato riguardo il dibattito della riconoscibilità umana – dei robot e delle IA – in relazione al nostro sguardo, alle nostre sensazioni e il conseguente straniamento. È, inoltre, un saldo punto di partenza nel campo del panorama videoludico horror, proprio come nel caso di Five Nights at Freddy’s.

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Ebbene, nella trasposizione di Five Nights at Freddy’s vediamo ampliarsi questo straniamento e approfondire la distanza disorientante tra un robot animatronico semi-umano e la realtà. Il film diretto da Emma Tammi sembra interrogarci perpetuamente sul ruolo che quest’ultima sta assumendo nella vita che svolgiamo. E quando Abby, Vanessa o Mike provano a scappare dalle porte d’uscita – sperando forse di tornare nella dimensione reale – si perderanno in un labirinto, come bloccati nelle backrooms. Le riflessioni nel film quindi sono fluidissime, tranne quando si tratta della cornice cinematografica, nella scrittura e nella messa in scena, arrancando nel tenere salde le intuizioni; srotolandosi passo dopo passo ed esaurendosi troppo in fretta.

Nell’universo di Five Nights at Freddy’s, nei mai espressamente dichiarati anni ’90, le immagini (anche oniriche) sono l’onnipresente metro di paragone per centellinare la percezione di quello che Mike e Abby stanno vivendo, notte dopo notte, dentro l’infernale pizzeria Freddy Fazbear’s nella quale Mike lavora. Guardare diventa l’atto ultimo per affermare l’esistenza, come se l’immagine, filtrata – anche ma non solo – dai dispositivi di sicurezza, fosse il centro nevralgico di un ecosistema vivo solo grazie all’osservazione. Non guardare, infatti, equivale a non esistere. I pupazzoni antropomorfi sono in grado di muoversi meglio se nessuno li tiene sott’occhio. Il vero punto debole dell’intera opera è la forma filmica, che viene meno se messa a paragone con l’opera di partenza, vale a dire l’omonimo videogioco indie da cui è tratta. Dall’esperienza della visione, quindi, resta solo il residuo di una mancata occasione. Per quanto poi la messa in campo di questi concetti rappresenti un concreto passo in avanti – nel giocare con l’horror per esportare il contemporaneo.

Titolo originale: id.
Regia: Emma Tammi
Cast: Josh Hutcherson, Matthew Lillard, Elizabeth Lail, Kat Conner Sterling, Jessica Weiss, Grant Feely, Jade Kindar-Martin, Kevin Foster, Theodus Crane, Christian Stokes, Wyatt Parker, Piper Rubio
Distribuzione: Universal Pictures International Italy
Durata: 110′
Origine: USA, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
2.5 (2 voti)
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