Giuliano Montaldo, l’ininterrotta riflessione sulla Storia

Il regista genovese ha storicizzato quella stagione del cinema italiano, fatta di impegno civile, autentica passione e strumento di diffusione della cultura popolare.

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Il genovese Giuliano Montaldo è stato uno degli ultimi esponenti di una classe di scrittori e sceneggiatori, registi e più in generale uomini e donne di cinema che hanno formato una invincibile schiera di autori con la solidità delle loro opere, certamente guidate da una ideologia antagonista ad ogni potere, ma al tempo stesso rispondenti ad una esigenza sociale che era quella di riflettere sulla nostra storia recente e farci comprendere quali fossero le radici della nostra cultura e della nostra Storia. Giuliano Montaldo è appartenuto a quella generazione di Lizzani e Maselli, di Pirro, di Petri e di De Santis, lavorando prima come attore, mestiere che ha recuperato felicemente negli ultimi anni, e poi come regista con l’intenzione di scandagliare la storia e i personaggi che hanno saputo contrapporsi al potere e forse sconfitti per la storia ufficiale, ma vincenti nel tempo successivo, là dove la storia trova le verità che il presente ha negato.
La notizia della scomparsa di Giuliano Montaldo, giunta durante lo svolgersi dell’80° edizione del Festival di Venezia, ha forse definitivamente storicizzato quella stagione del cinema italiano, fatta di impegno civile e autentica passione e dei film come strumento di diffusione di una cultura popolare e sconosciuta, ma non disgiunta da una professionalità alta che ha reso famoso quel cinema non soltanto dentro i nostri confini, ma anche all’estero dove la sua continua riscoperta, ad opera di cineasti o critici, costituisce la vera novità che serve a vivificare, non il ricordo, ma il recupero di quei titoli che alla loro uscita hanno riempito le sale ed emozionato quegli spettatori.

La sua carriera d’attore è cominciata quando aveva 21 anni in parallelo con l’esordio del regista di quel film, Carlo Lizzani, Achtung Banditi! del 1951. Forse è stato questo impatto duro e politicamente orientato a segnare il futuro del giovane attore che solo dieci anni dopo sarebbe passato alla regia. Ma in realtà la sua carriera di attore è continuata rivolgendosi ancora al cinema del coetaneo Lizzani (Ai margini della metropoli del 1953 e Cronache di poveri amanti del 1954) o a quello di Maselli (Gli sbandati del 1955 o La donna del giorno del 1957), ma è stato attore anche per Margarethe Von Trotta (Il lungo silenzio del 1993) e poi in tempi più recenti per Michele Placido (Un eroe borghese del 1995), Nanni Moretti (Il caimano del 2006) e Carlo Verdone (L’abbiamo fatta grossa del 2016) per chiudere con la sua ultima apparizione nel film di Francesco Bruni Tutto quello che vuoi del 2017. Non quindi un’episodica partecipazione dettata dall’invito di amici, quanto piuttosto una lunga, lunghissima fase della sua carriera di cineasta che non può essere disgiunta da quella di attore, il che consente sicuramente di affermare che Giuliano Montaldo è stato un uomo di cinema completo, attento alle esigenze dei suoi attori e regista altrettanto felice nelle sue produzioni sempre dirette a raccontare personaggi e storie controcorrente, in quella idea volta a considerare il cinema come pragmatica pratica storica, divulgativa e se si vuole altamente didattica, ma non disgiunto da una qualità sempre alta della realizzazione in quella tradizione italiana fatta di una artigianalità elevata, raffinata e per questo anche famosa nel mondo. Giuliano Montaldo, proprio su queste idee che appartengono ad una idealizzazione – se si vuole – del ruolo di autore e intellettuale, ha realizzato i suoi film scevri da ogni immediata spettacolarità, ma sicuramente toccando sempre i sentimenti del pubblico con il suo cinema narrativo ma denso di un senso profondo per il rispetto della storia.
Tiro al piccione del 1961 è stato il film dell’esordio come regista, ambientato dopo l’8 settembre tra melodramma e caduta della Repubblica di Salò, ultimo avamposto del fascismo. Un esordio coraggioso per un autore alle prime armi dietro la macchina da presa, nonostante la sua esperienza maturata come attore. Seguiranno altre incursioni nella storia come Got mit uns del 1970, ancora di genere bellico con una riflessione sui temi etici che la guerra inevitabilmente pone. Negli anni seguenti Montaldo con coerenza d’autore continuerà a indagare sulla storia più o meno recente del nostro Paese e firmerà tre film che in sequenza sembrano ridefinire questo suo interesse per il cinema fortemente empatico, fatto di personaggi vigorosi e altrettanto rigorosamente oppositori dei regimi che li hanno resi vittime. Sacco e Vanzetti del 1971 rievoca il vergognoso processo che negli Stati Uniti portò alla morte i due anarchici italiani ingiustamente accusati di avere organizzato un attentato. Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla interpretano i due imputati, restando famoso il monologo finale di Bartolomeo Vanzetti (Volonté) e la canzone di chiusura affidata alla voce cristallina di Joan Baez. Giordano Bruno del 1973 si affida ancora a Volonté, protagonista assoluto del film che racconta della condanna al rogo per il pensatore di Nola negli anni bui della Santa Inquisizione. La splendida fotografia di Vittorio Storaro impreziosisce il film con la densità dei suoi colori. L’Agnese va a morire del 1976 torna a parlarci della Resistenza questa volta con le vesti femminili di Agnese, vedova di un partigiano e staffetta per orgoglio di appartenenza, anch’essa tra le tante dimenticate donne di quegli anni, sacrificata in nome della Guerra di Liberazione. Sono forse i tre film più famosi del regista genovese e più caratterizzanti della sua filmografia. Sul fare degli anni ’80 il suo sguardo si è rivolto al presente e nell’Italia per molte ragioni violenta di quegli anni il tragico e implacabile Il giocattolo del 1979 è stato un film che fece il paio con il quasi coevo Un borghese piccolo piccolo del 1977 di Mario Monicelli. Come spunto la tragica fine di Re Cecconi, all’epoca giocatore della Lazio, ucciso per uno scherzo con una pistola. Un film che riflette trasversalmente sulla violenza di quegli anni e sul possesso delle armi come passaporto di falsa sicurezza. Gli occhiali d’oro del 1987, tratto dal famoso romanzo di Bassani, fa tornare Montaldo all’epoca del fascismo con meno rabbia, ma senza perdere il suo tratto autoriale per un racconto di emarginazione del suo protagonista per la sua omosessualità. Un film che rispetta l’impianto del romanzo e si avvale dell’interpretazione di Philippe Noiret. Una parziale biografia di Dostoevskij è il soggetto di I demoni di San Pietroburgo del 2008. L’industriale del 2011 è l’ultimo lavoro di Montaldo, che racconta il presente drammatico della crisi economica dal punto di vista di un piccolo industriale (Pierfrancesco Favino) soffocato dai debiti che troverà una soluzione per la porre fine alla sua crisi economica e familiare.
Tratto questo della storia e dell’antagonismo politico il fil rouge delle opere di Montaldo, sempre vicino alle istanze che mettono in primo piano i diritti contro ogni regime, credendo in quel cinema segnato dal tratto dell’impegno civile e sempre vicino alle associazioni che lo diffondono, dimostrando che la magnifica integrazione dell’intellettuale con la società civile dà sempre buoni frutti. Con Montaldo scompare uno degli ultimi autori di cinema che a tutto tondo hanno creduto nel potere politico delle immagini e in una rinascita che partisse dalla ininterrotta riflessione sulla storia ed è per questo che non potrà che mancarci, restando invece vivo il suo cinema.

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