Homunculus, di Takashi Shimizu

Disponibile su Netflix, il nuovo film di Shimizu presenta sì un’acuta indagine sulla natura del trauma, ma non trova la chiave linguistica adatta al dialogo con “l’immaginario manga” di provenienza

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Ad un primo sguardo, il personaggio di Nakoshi (Go Ayano) sembra un vero e proprio enigma: ha l’aspetto e gli atteggiamenti di un alto-borghese, ma vive all’interno di una vecchia automobile; mangia in ristoranti di lusso e nel contempo trascorre le proprie giornate in compagnia di disperati senzatetto con cui non condivide l’estrazione sociale, né tanto meno la formazione culturale. É un uomo che vive “nel mezzo” e di cui non sembrano esistere omologhi in società. É solo nel momento in cui un ragazzo altrettanto enigmatico gli chiede di sottoporsi ad un’operazione cranica mediante cui è possibile sviluppare il “sesto senso”, che progressivamente viene svelata l’origine del suo ambiguo comportamento. Nakoshi, infatti, è il relitto di un trauma pregresso, un guscio privo di emozioni corporee tendente all’auto-annullamento, incapace non solo di provare sensazioni, ma di cercare un faro che illumini il proprio sentiero esistenziale.

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É in questo scenario che il film di Shimizu (Ju-On, The Grudge, Marebito) trova la propria ragione d’essere: ciò che il regista giapponese qui pone in essere è una parabola narrativa conducente l’amnesico protagonista al superamento del trauma personale attraverso la continua condivisione dello stesso con coloro con cui si interfaccia. Gli homunculi che Nakoshi è in grado di percepire ogni qualvolta osserva una persona, non sono nient’altro che i sensi di colpa, le idiosincrasie e i traumi celati nell’inconscio dei singoli individui, che di volta in volta, vengono portati a risoluzione dal protagonista, una volta entrato in contatto corporeo con essi. Più Nakoshi proietta sul proprio corpo (e sulla sua psiche) gli eventi traumatici delle esistenze delle persone, più è in grado di comprendere la natura sfuggente del proprio trauma, al punto da arrivare a darle una materializzazione corporea nell’ambivalente figura di Nanako/Chihiro (Yukino Kishii).

Se Shimizu eccelle nell’elaborazione di un discorso narrativo sulla natura e gli effetti generati dal trauma, nel momento in cui deve offrire una traduzione filmica di codici linguistici connotanti un medium differente (l’opera è un adattamento dell’omonimo manga di Yamamoto), sembra non trovare una risposta audiovisivamente adeguata. Diversamente da altri autori, quali Miike e Sion Sono, che nel passaggio dalla carta stampata all’immagine filmica sono stati in grado di ragionare sistematicamente su cosa voglia dire portare sul grande schermo un’estetica proveniente da un medium così differente da quello cinematografico, inglobandola in immagini che dialogano ontologicamente con l’immaginario manga, come nel caso di Ichi The Killer (2001, tratto anch’esso dall’opera di Yamamoto), della trilogia di The Mole Song: Undercover Agent Reiji (2014-2021), di As the Gods Will (2014) o della duologia di Shinjuku Swan (2015-2017, con protagonista lo stesso Go Ayano), in Homunculus Shimizu non pone in essere un ragionamento di questo tipo. Da tale prospettiva, infatti, il regista nipponico si limita (con successo) ad integrare organicamente gli effetti visivi nella messa in scena, in un connubio foto-realistico tra elementi in computer generated imagery e immagine digitale, deputato alla ricerca di una proposta audiovisiva finalizzata a rispondere, con esiti parziali, ad un obiettivo precipuo: quello di trovare dei codici di linguaggio che traducano sistematicamente, nello spazio-tempo filmico, immagini di un medium ontologicamente diverso.

Titolo originale: id.
Regia: Takashi Shimizu
Interpreti: Gô Ayano, Edward Bosco, Amber Lee Connors, Lucien Dodge, Doug Erholtz
Origine: Giappone, 2021
Distribuzione: Netflix
Durata: 115′

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.8
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Il voto dei lettori
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