Hope, di Maria Sødahl

La regista norvegese racconta una storia autobiografica fragile, asciutta ed essenziale e capace di commuovere.

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Scritto dalla regista Maria Sødahl, Hope si basa sulla sua storia di vita personale quando, sette anni prima, riceve una diagnosi terminale di cancro. Un dramma intimo in sette giorni che scorre fluido in avanti, ripercorrendo l’iter di Anja-Maria per ricrearne lo spiazzamento e restituire le rivelazioni incontrate lungo la via attraverso l’analisi dei sentimenti di una coppia in precedenza negati, e la crudeltà del tempo che passa e di quello che rimane. Presentato al 44° Festival Internazionale di Toronto, è il secondo film della regista dopo l’esordio con Limbo del 2010.

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Anja torna a casa per festeggiare il Natale e tutti la stanno aspettando: il suo compagno di vita Tomas, i loro tre figli, insieme a quelli del primo matrimonio di Tomas, e suo padre. Ma proprio la vigilia, Anja riceve una terribile diagnosi e scopre di avere un tumore al cervello che è una metastasi del cancro al polmone scoperto l’anno precedente. Secondo le prime stime, il tumore è inoperabile e ad Anja rimangono soltanto tre mesi di vita. Quando la notizia comincia a diffondersi, la sua relazione con Tomas comincia a cambiare.Esistono diversi modi per raccontare una malattia sul grande schermo. La storia del cinema è disseminata di cancer movie che affrontano il tema da punti di vista differenti. Nel 2011 Jonathan Levine sceglie la via della leggerezza e dell’ironia per il suo 50/50, al contrario di altri film che utilizzano linguaggi più drammatici, basti pensare a Nemiche amiche di Chris Columbus del 1998, o toni dalle sfumature sentimentali come Sweet November – Dolce novembre di Pat O’Connor del 2001.

Hope invece è intriso di realismo. Uno sguardo fragile e tagliente che racconta e sintetizza un’opera emotiva, il cui approccio crudo, come nella scena di sesso e pianto tra Anja e Tomas, è estremamente commovente e rimane sempre veritiero rispetto alla propria esperienza. Un modo asciutto ed essenziale di raccontare un gigantesco spavento che rimane come monito della propria transitorietà, che soltanto una grave malattia come il cancro può mettere in evidenza. La sceneggiatura costruisce situazioni riguardo alla scoperta della malattia, all’accettazione dello stato, al tentativo di non farsi abbattere in particolar modo dall’incertezza e alla pressione che aiuta a reagire, come quando Anja dice a Thomas: “Avevi bisogno davvero di una condanna a morte per fare la cosa giusta, quando ormai è tutto finito?”. Hope parla quindi di una diagnosi di un cancro terminale per ricucire una relazione che non funziona più, ma la scrittura non è mai monopolizzata dal dramma e tutto il film è pensato su un impianto di matrice teatrale che si erge sulla perfetta interpretazione di Andrea Bræin Hovig e Stellan Skarsgård che interpretano i personaggi di Anja e Tomas, conferendo loro una forte energia e personalità.

Hope trova il giusto equilibrio tra personale e non privato, che non risparmia scene grezze ed esplicite, verso le quali non è facile rimanere indifferenti. Un viaggio verticale che insegna a non dare mai per scontato l’amore e pone allo spettatore alcuni interrogativi su questioni che solitamente sentiamo lontane da noi: quando ci troviamo di fronte a un bivio, cosa conta realmente? O ancora, fino ad ora ho vissuto la mia vita come avrei voluto?

Titolo originale: Håp
Regia: Maria Sødahl
Interpreti: Andrea Bræin Hovig, Stellan Skarsgård, Alfred Vatne, Elli Rhiannon Müller Osborne, Steinar Klouman Hallert, Daniel Storm Forthun Sandbye
Distribuzione: Movies Inspired
Durata: 125′
Origine: Norvegia, Svezia, Danimarca 2019

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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Il voto dei lettori
2.5 (10 voti)
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