Il buco, Ballard e i cannibali – Pandemia selvaggia

Da “El hoyo” al feroce condominio ballardiano, da Bong Joon-ho alla “pandemia selvaggia” odierna che ci divora dentro. Non è un paese per romantici lettori d’avventure. Vecchi primitivi ritornano

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In cosa consiste esattamente il meccanismo del Buco? La risposta è “bisogna mangiare”, fin quando ce n’è, fin dove sarà possibile farlo. Semplicemente, ciò che viene messo al centro della questione è il funzionamento becero della sopravvivenza umana, fondato su bisogni primari quale il cibo e la defecazione, ideale sistema di schiavitù rispetto all’organicità decadente del corpo. O ancora, l’interrogazione sul cosa si sia disposti a fare – disumanamente, se o quando necessario – nel frangente catastrofico che ticchetta l’ora della fine.
È il momento ottimale per discutere di sopravvivenza individuale e/o collettiva. Analogamente a quanto accade al protagonista de El hoyo, ogni mattino ci si sveglia spalancando gli occhi sulle pareti di un buco grigio di forma rettangolare. E ci si domanda in quale “livello” della calamità saremo finiti stavolta, con quali numeri spaventosi avremo a che fare alle 18:00 della sera. Anche nel Buco i numeri sono importanti: 48, 171, 33, 202, 6 e così via fino alla fine della storia. Non abbiamo i numeri ufficiali dei deceduti all’interno della prigione verticale, così come non scopriremo troppo presto quanti siano i livelli totali scavati nella pancia della terra nera. Ma è chiara fin dal principio l’esistenza di diverse categorie di detenuti: ci sono quelli di sopra, poi quelli di sotto, infine quelli che cadono. Ma per essere più precisi: anche quelli che mangiano e quelli che crepano dalla fame.
Il regista Gaztelu-Urrutia mette in evidenza – in una sorta di prologo iniziale al film – l’importanza smoderata del cibo per i reclusi del Buco, per i quali viene imbandita giornalmente una grande piattaforma di vivande e prelibatezze per ogni palato, che scende giù attraverso i vari livelli sostando appena un paio di minuti per piano. È quello il momento della giornata in cui Trimagasi e compagni danno il peggio di loro stessi: “bisogna mangiare” e nient’altro, se possibile sputare sul cibo che resta, quando resta, agli inquilini del piano successivo. Non importa troppo la collocazione che essi avranno oggi o domani, la loro vita pregressa, il loro denaro: «I nostri vicini sono comunque tutti arrabbiati», avrebbe ribadito James G. Ballard in questa versione carceraria. La regola è di non instaurare una comunicazione con gli altri del “condominio”, trattarli col disprezzo necessario che – all’occorrenza – verrà debitamente restituito. Bisogna mangiare e disprezzare nel Buco, perché se non c’è vera “solidarietà spontanea”, quello che ci si può scambiare, al limite, è la merda del corpo.

Distopia nuda e cruda. Nei suoni, nei colori, negli scambi di frasi sempre al limite tra orrore e grottesco. E Goreng, che poteva portare con sé nella sua cella bucata il Don Chisciotte della Mancia e, nel frattempo, provare a smettere di fumare, diventa nella reclusione la peggiore copia di se stesso, vittima del cibo e del tradimento della realtà che aveva immaginato così diversa. No, non è un paese per romantici lettori d’avventure di altri tempi. Goreng come Alonso Chisciano che cade da cavallo. Come i condomini della futuristica città ballardiana, dove gli antagonismi esplodevano al minimo blackout o malfunzionamento della struttura perfetta, liberando una “pandemia selvaggia” rivelatrice della falla del sistema. Come quelli che si azzuffano oggi – di nuovo, vecchi primitivi – per la pasta, il latte, la farina per la pizza, la carta igienica degli inglesi… Che le pagine di un libro, loro, se le mangerebbero senza esitare, se necessario. Sempre tutti uguali, qualche volta orribili dentro, moralizzatori, subdoli, cannibali. Partoriti dalla pancia contagiata della società, che si volta a mostrare nuovamente il suo lato remoto squilibrato, conteso tra istinto e ragione.
Goreng si mangia Trimagasi, già consumato per metà dai vermi. Si mangia il corpo concesso in regalo dalla suicida San Juan, una di “quelli che cadono”. E poi se la prende con le persone che, ai piani più alti, si ingozzano senza ritegno e senza pensare alla presunta solidarietà di gregge. Escremento stesso del Buco, lui come gli altri, figlio della regola del gioco “mangi o vieni mangiato”, lupo (o lumaca) affamato tra i lupi affamati: Massagué decide, infine, di immolarsi e diventare il “Messia della merda”, difensore di panne cotte ed escargots à la Bourguignonne per il bene della rivoluzione da grande bouffe.

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Nell’High Rise (1975) di Ballard – trasposto al cinema dal britannico Wheatley – , era il documentarista Wilder a incolpare il condominio verticalizzato del disfacimento umano degli inquilini; egli avviava così un’“animalesca” scalata verso l’alto nel tentativo di raggiungere l’architetto Royal, sopraffarlo e rovesciarne la struttura, rispecchiante l’inflessibile ordine di classe. Goreng, con movimento inverso, scende giù nel pozzo, traghettandosi nell’inconscio bestiale del mondo, dove i corpi sono sempre più nascosti agli occhi del sistema superiore, come nel bunker di Parasite, o negli ultimi vagoni di Snowpiercer. Ma i livelli infernali qui sono molti di più, il fondo dell’avidità umana troppo “interiore”, scavato nell’uomo compromesso già da tempo dal (suo) virus animale. È questo il vero “messaggio” che il film intende recapitare all’amministrazione dei piani superiori, la più gustosa delle panne cotte: l’infezione – è ovvio! – è sempre stata dentro. Succulento pasto già servito sul piatto della pandemia.

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