Il cinema visionario di P. Adams Sitney: panorama del cinema d'avanguardia americano

L'atto cinematografico come manifestazione pura del sé, il culto della manualità del procedimento tecnico, la ricerca formale di un linguaggio interiore nella rassegna che il Filmstudio ha dedicato al movimento avanguardistico che inizia negli Stati Uniti negli anni '40.

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Tornano alla luce dopo dieci anni di oscurità e, con la concretezza della luce, ricompongono l'astrattezza dell'immaginazione i "frammenti di paradiso sulla terra",  definizione battesimale di Jonas Mekas per il complesso e debordante gruppo di film che costituisce l'esperienza del cinema d'avanguardia americano.
Il Filmstudio, lo storico cineclub romano che in questi giorni festeggia il trentacinquesimo anniversario, nel 1992 (in altra sede) aveva presentato queste opere al pubblico della capitale e oggi le ripropone con il programma fitto e importante dei 13 giorni della rassegna Il cinema visionario di P. Adams Sitney. La selezione delle pellicole, la cui proiezione è un evento raro, si articola sulla filmografia fissata dal teorico P. Adams Sitney nel saggio del 1974 Visionary Film: The American Avant-Garde.
Il libro, riedito in Francia in una versione arricchita, segna il riconoscimento storico di una cinematografia sommersa e innovativa che per la prima volta viene analizzata nella sua completezza. Il progetto del saggio nasce all'interno stesso del movimento, dagli appunti che Sitney raccoglie presentando negli anni '60 il New American Cinema in Europa e dai quali emergono delle modalità comuni nella spinta rappresentativa e nella pratica produttiva delle varie opere.

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I registi condividono una forma espressiva profondamente autoreferenziale, rendendo oggetto dei film non solo l'intimità dei loro pensieri ma anche la materialità dei loro corpi, delle loro voci, delle loro famiglie e delle loro case. Inoltre, il "culto della manualità" nella realizzazione diviene il segno distintivo di un'esigenza di personalizzazione della meccanicità dell'arte cinematografica. La difficoltà e l'irriducibile arbitrarietà del processo tecnico sono affrontati come fasi costitutive dell'esperienza creativa e in un movimento specchiato si duplicano nella "fatica" dello  spettatore al momento della visione.
Orientando la ricostruzione su tali coordinate, Sitney tralascia la sistematizzazione  cronologica per formulare una genealogia di forme nelle quali racchiudere le singole esperienze. Rievocando la sua suddivisione, la retrospettiva di questi giorni attraversa dodici fasi dell'evoluzione avanguardistica cominciando con il visionarismo onirico che caratterizza il periodo degli anni '40 nelle opere di una delle esponenti più impegnate del panorama sperimentale, Maya Deren.

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In Meshes of the Afternoon ('43), At Land ('44) e Ritual in a Transfigured Time ('46) la regista ricrea, come in uno stato di sonnambulismo, il magmatico ordine dell'inconscio. Usando se stessa come protagonista multipla, Maya Deren si immerge in un luogo segreto dell'interiorità dove il tempo è ellittico, i diversi stadi dell'io sono sincronici, l'idea è materia e l'oggetto è idea. Ogni elemento e ogni gesto assume, così, la densità sacra di un rituale e stabilisce l'afflato introspettivo del "film trance" che evoca la poesia di Jean Cocteau e che attraverso la Deren si irradia sulla generazione di autori a lei contemporanei.
L'atto cinematografico diventa manifestazione pura del sé che si completa autonomamente dal controllo razionale, germinando via via la propria forma. Gli spontanei affioramenti di visioni sognate si aggregano così in una naturale evoluzione mitopoietica.


 

A partire degli anni '50 l'immaginario dardeggiante e iniziatico di Kenneth Anger, d'ispirazione anche per Scorsese, Fellini e Fassbinder, calamita i totem della cultura americana e li restituisce sovrapposti, alterati. Il sontuoso barocchismo di Inauguration of The Pleasure Dome ('54, concepito per essere proiettato su tre schermi) condensa, nella divinità teatrale dei personaggi di una opera lirica carnevalesca, l'artificiosità del culto. Culto che in Scorpio Rising ('63) si applica nella liturgia dei corpi e degli oggetti come simulacri di una libido ambivalente che rende il cinema stesso oggetto erotico.
Sofisticato e concettuale è invece l'erotismo che sprigiona dalle geometrie ritmiche dei film di Gregory Markopoulos. L'accostamento metaforico di Swain ('50) e la puntuale razionalizzazione del colore di Ming Green ('66) suggeriscono una sensualità che trova in Twice a man ('63) l'espressione più compiuta. La distribuzione del desiderio in quattro personaggi, riflessi l'uno nell'altro, delinea una configurazione frattalica che si rifrange nelle intermittenze di quello che Markopoulos definisce un "montaggio astratto". Le distanze inesorabili tra i personaggi e tra i loro stessi stadi interiori emanano una passione raggelata che crepa, nell'ultima inquadratura il volto dell'attrice frantumandolo.



Abbandona invece la drammatizzazione insita nella presenza degli attori il cinema di Stan Brakhage, autore di uno straripante corpus di film (circa 300) in cui opera la riconduzione della visione ad uno stato primordiale, al "mondo prima di 'in principio era la parola'". Con Dog Star Man ('61-'64), film culto della storia del New American Cinema, egli rinuncia anche al sonoro per restituire all'immagine il lirismo della sua verginità. Nell'incontro tra l'uomo e la natura Brakhage fonda una cosmogonia delle sensazioni che si spandono da quello che chiama il "mobile pensiero visivo". Un pensiero viscerale e isolato dagli altri sensi e che i sensi ricrea nell'occhio per la necessità non di "guardare" ma di "vedere". Tramite l'uso di sovrimpressioni, pittura sulla pellicola, obiettivi anamorfizzati, trattamenti ottici, libera la vista dai convenzionali canali di percezione e riconoscimento e la mette in contatto con immagini sensibili.
Un'altra significativa personalità della scena avant-garde è Jack Smith che piuttosto che esplorare la purezza primitiva della visione si immerge nell'impurità per cavarne la bellezza intrinseca. Sia come attore in Little Stabs at Happiness ('59-'63) e Chumlum ('64) che come regista in Flaming Creatures ('63) si serve di uno stile grezzo e di un immaginario scabroso per denudare l'anima congiungendo nello stesso luogo inferno e paradiso. L'ingenuità con cui rappresenta l'osceno finisce quindi per imprimere una giocosità fuori dalla morale anche alle scene di stupri e violenza.
C'è chi però impregna di un'aria surreale e misteriosa la propria opera adoperando interamente sequenze di film classici. E' il caso di John Cornell che inaugura il genere del film-collage estraendo e rimontando dei pezzi della pellicola hollywoodiana East of Borneo per il film Rose Horbart ('36-'39). Contraendolo in 20 minuti, eliminando il sonoro e sganciandolo dalla logica, Cornell fa esplodere le pulsioni soffocate nei gangli narrativi. La protagonista si triplica, la vicenda si scioglie in una fluttuazione suadente e il tempo si sfalda in un parallelismo astratto.

Lo scenario ricco e frastagliato della Film-makers Cooperative, i suoi autori,  gli ispiratori, le situazioni, i luoghi trovano in Jonas Mekas il loro cantore. Con Walden ('64-'69), il diario filmato della quotidianità del fermento creativo newyorchese degli anni '60, egli raffigura un universo poliedrico e centrifugo da cui si dipartono le diramazioni del movimento.
Al di fuori di Walden non si possono però dimenticare, nei mille rivoli della produzione sperimentale, i caleidoscopi ipnotici dei mandala di James e John Whitney e di Jordan Belson, le animazioni iconoclastiche o raffinate di Robert Breer, Larry Jordan, Len Lye e Harry Smith, così come i "decostruttori" della visione Paul Sharits, Owen Land e Hollis Frampton e le prove più recenti di esplorazione iconografica di Phil Solomon, Su Friedrich, Nathaniel Dorsky e Abigail Child. Tutti fondatori di uno scardinamento dell'immagine la cui peculiare forza destabilizzante non è stata assorbita da quel linguaggio in cui i nuovi codici sono confluiti: la pubblicità, i videoclip, la videoarte e il virtuale. La facilità e la velocità che le moderne tecnologie consentono all'improvvisazione di soluzioni formali priva il lavoro di creazione e di fruizione proprio di quello sforzo e di quella incertezza che sono per i protagonisti dell'avanguardia tappe irrinunciabili di un "esercizio spirituale".


 

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