Il colore viola, di Blitz Bazawule

I linguaggi del musical donano al film un grado di vitalità introvabile nella versione di Spielberg, anche se la marginalizzazione della violenza maschile offusca la carica antropologica della storia

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Pochi testi hanno catalizzato i discorsi socio-culturali sulle comunità afroamericane come Il colore viola. L’iconico romanzo del 1982, che ha permesso ad Alice Walker di diventare la prima scrittrice afrodiscendente a vincere il Pulitzer per la narrativa, è stato oggetto nel tempo di numerose invettive polemiche, e non solo da parte degli Stati a trazione repubblicana che hanno cercato di estromettere l’opera dai luoghi di conoscenza ed istruzione: in tal senso, sono state alcune comunità black, memori di quella disparità di trattamento che li ha confinati ai margini delle politiche rappresentative, a mettere in questione i registri con cui la scrittrice aveva codificato dei ritratti duri e spietati della violenza esercitata dai maschi afroamericani, di cui le donne erano le vittime e destinatarie uniche. Un fenomeno a cui il film di Bazawule cerca di legare i suoi discorsi, intersecandoli con le sensibilità più tipiche della Hollywood contemporanea.

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È chiaro che nel momento in cui si traslano le logiche del racconto di Walker in campo cinematografico, non si può che guardare a colui che le ha tradotte per la prima volta sul grande schermo: ovvero Steven Spielberg. Ma da qualunque prospettiva la si osservi, appare evidente come questa nuova versione de Il colore viola si ponga in discontinuità con gli stilemi – e soprattutto con le immagini – del precedente adattamento, per innervarsi di logiche e canoni perlopiù inediti. La storia, in questo senso, non cambia, e le tappe che cadenzano il racconto di quarant’anni della vita di Celie, dalle molestie subite in gioventù dal padre, al matrimonio forzato con il burbero e violento Mister, fino alla separazione dall’amata sorella Nettie (e al successivo ricongiungimento con la stessa nell’epilogo) seguono con linearità l’andamento del film del 1985, senza però reiterarne le logiche di fondo. A mutare sono proprio i registri “musicali” con cui prendono ora vita le traiettorie emotive della protagonista, al punto che le grammatiche del musical si fanno qui veicolo e specchio delle fantasie di emancipazione a cui anela la tragica eroina.

Ciò che rende coeso e vitale questo nuovo adattamento de Il colore viola è la capacità del cineasta di declinare tutti i soprusi, le prevaricazioni e la liberazione finale dai fardelli della mascolinità tossica, nelle estetiche libertarie del musical. Se, ad esempio, il film di Spielberg funzionava nelle singole parti ma non nell’insieme, qui Bazawule trova nell’espressività del canto e nei linguaggi del cinema musicale uno strumento connettivo potente, che non solo rende più quadrata la narrazione rispetto alla precedente versione, ma permette ai personaggi in campo di canalizzare le loro crisi – e di conseguenza, la loro successiva trascendenza – attraverso quello stesso strumento con cui intere comunità afroamericane hanno storicamente espresso le emozioni più recondite del loro animo: il canto gospel. Che si fa qui matrice ed estensione sia delle istanze linguistiche del film, sia del cuore umano (e disumano) dei personaggi codificati nel libro dalla celebre scrittrice.

E si arriva così ai temi indicati in partenza. È proprio qui, infatti, ovverosia nella totale affermazione dell’espressività femminile e nella complicità emotiva che lega tra loro le varie donne del racconto, che Il colore viola fa dialogare il testo di Walker con le politiche di genere (nonché di inclusione/rappresentazione) in seno alla Hollywood odierna. Non è un caso che il dramma passi esclusivamente attraverso i volti di Celie (la cui versione giovanile è interpretata da Phylicia Pearl Mpasi mentre quella adulta da Fantasia Barrino), di Shug Avery (Taraji P. Henson) e Sofia (Danielle Brooks) ovvero di donne lacerate dalle storture della società, da cui cercheranno ripetutamente di astrarsi. Mente del conflitto degli uomini, a tutti gli effetti, non c’è (quasi) traccia.

 

Se nel romanzo, così come nel film di Spielberg, è data risonanza alla traiettoria di implosione/redenzione di un uomo diabolico come Mister, qui il percorso del personaggio rimane completamente schiacciato dall’onnipresenza femminile. Un fattore, questo, che da un lato permette a Il colore viola di rispondere a chiare lettere alle esigenze femministe della Hollywood post-#metoo, e dall’altro però rischia di silenziare il portato (ideologico, semantico, culturale) di cui si fa carico nel racconto la violenza maschile, compromettendo così le fondamenta stesse di quei ritratti antropologici che hanno portato la storia di Celie a radicarsi nell’immaginario collettivo statunitense.

Titolo originale: The Color Purple
Regia: Blitz Bazawule
Interpreti: Fantasia Barrino, Taraji P. Henson, Danielle Brooks, Colman Domingo, Corey Hawkins, Phylicia Pearl Mpasi, Halle Bailey, Ciara, H.E.R., David Alan Grier, Deon Cole, Jon Batiste
Distribuzione: Warner Bros. Pictures
Durata: 141′
Origine: USA, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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Il voto dei lettori
3 (3 voti)
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