Il divin codino, di Letizia Lamartire

Il divin codino cerca di evitare gli imbarazzi del calcio ricostruito al cinema e prova a raccontare l’affetto non corrisposto di un campione fragile. Su Netflix

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C’è sicuramente un’analogia tra Il divin codino e l’epopea sportiva e privata di Roberto Baggio. Infatti, il biopic e il calciatore combattono spesso contro i loro limiti. Purtroppo, lo scarto tra il talento degli autori e quello del loro protagonista non permette le stesse vie d’uscita. Il campione è entrato nel cuore di una nazione attraverso i suoi colpi di genio mentre la sua trasposizione cinematografica difficilmente farà altrettanto.

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Letizia Lamartire ha il merito di focalizzare e di superare l’inevitabile apice drammatico del copione. Per scansare l’insidia della banalità, il suo film deve andare oltre il rigore sbagliato nella finale del mondiali americani del 1994. Non è un’operazione facile, anche perché quel penalty rappresenta l’indelebile punto di svolta anche della vita di Roberto Baggio. In più, è un momento di disillusione collettiva che ha segnato un’intera generazione di italiani.

La sequenza iniziale sembra presagire un approccio scontato. Il fuoriclasse bambino sogna di tirare un rigore decisivo contro la porta a vetri dell’officina del padre. Una rapida ellisse trasforma il pavimento polveroso dell’infanzia nell’incantato e soffice prato verde di un vero campo di calcio. Ci si aspetta di vedere il tiro andare tristemente alto, per la gioia dei brasiliani. Invece, questo facile salto temporale viene almeno ritardato.

La palla entra comodamente nella porta, perché il film non si è spostato al Rose Bowl di Pasadena ma nel piccolo stadio del Vicenza. Roberto Baggio è solo un diciottenne dal grande avvenire ed ha appena firmato un contratto da favola con la Fiorentina. Il piano de Il divin codino per sfuggire alla trappola del rigore maledetto diventa sempre più chiaro. La finale persa è solo il più grande di una serie di eventi sfortunati.

Infatti, poco prima di trasferirsi nella grande città, il ginocchio dell’eroe cede in più punti e la sua strada verso il successo sembra compromessa. La solitudine e l’insicurezza aggravano la sua frustrazione per una richiesta di affetto paterno continuamente negata. Ormai, Roberto Baggio è ad un passo dal vedere il suo talento definitivamente dissipato. Alla fine, la scoperta del buddismo gli dà la forza di continuare e di affermarsi.

Letizia Lamartire sceglie di usare l’arma drammatica della caduta e della rinascita e di ripeterla più volte durante il film. La storia si sviluppa intorno alla reazione del protagonista davanti agli imprevisti e ai fallimenti. Ogni sua risposta emotiva è contaminata dalla voglia di essere apprezzato dal suo burbero capofamiglia. Il suo desiderio di conforto viene ripetutamente tradito dagli allenatori fino all’incontro lenitivo con il protettivo Carlo Mazzone.

C’è un aspetto della carriera di Roberto Baggio che il film centra con grande precisione. Tutti gli italiani hanno ancora la percezione che il mondiale sia stato perso per colpa sua. In realtà, gli azzurri erano già sotto e con grande probabilità avrebbero perso anche se avesse segnato il suo rigore. Tuttavia, è come se la sua narrativa prima di quel momento avesse illuso la nazione che la sconfitta fosse impossibile. È per questo che tutti ci sono rimasti così male.

La sceneggiatura di Stefano Sardo suggerisce un interessante parallelo con questo sentimento popolare. Da bambino, il futuro campione promise al padre deluso la rivincita della finale dei mondiali del 1970. La vittoria contro il Brasile è l’obiettivo della vita di Roberto Baggio e lo scopo della sua pratica buddista. Eppure, il suo impegno personale non ha mai la pretesa di risollevare un paese intero. È l’unico modo per conquistare il genitore e renderlo fiero di lui.

Il calciatore si presenta dal dischetto con lo stesso senso di predestinazione provato da tutti i tifosi davanti alla televisione e loro delusione è speculare. Eppure, Il divin codino rifugge anche lo schema del grande affresco nazionalpopolare. Si concede solo qualche solita scenetta nostalgica, con gli schermi a tubo catodico e i vecchi al circolo che guardano la partita. Le celebri polemiche da bar che accompagnarono il suo rapporto con il commissario tecnico Arrigo Sacchi sono funzionali ad un transfer padre/mister destinato alla frustrazione.

Altri aspetti eclatanti della sua carriera, come la rivolta di Firenze il giorno in cui venne venduto alla Juventus, vengono omessi. È un peccato perché effettivamente Roberto Baggio venne strappato controvoglia dall’unica città che lo aveva amato incondizionatamente. La scelta non si giustifica soltanto con la volontà di restare in un ambito privato. Letizia Lamartire cerca saggiamente di confrontarsi il meno possibile con gli imbarazzi del calcio ricostruito.

Il divin codino non capovolge le tradizionali difficoltà di rappresentazione cinematografica dei momenti di gioco. I suoi tentativi di metterli in scena sono abbastanza velleitari e condizionati da una certa impazienza di passare ad altro. Come detto, il film si sforza di superare quei limiti di cui ha consapevolezza. Pur tra tante difficoltà e passi falsi, riesce ad essere abbastanza empatico. Resta da stabilire se questo sentimento sia merito suo o non dipenda dal carisma riflesso di un campione universalmente amato.

 

Regia: Letizia Lamartire
Interpreti: Andrea Arcangeli, Valentina Bellè, Thomas Trabacchi, Andrea Pennacchi, Antonio Zavatteri, Martufello
Distribuzione: Netflix
Durata: 92’
Origine: Italia, 2021

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.96 (27 voti)
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