Il paese del melodramma, di Francesco Barilli

Sopra le righe, totalmente e irrimediabilmente fuori dal tempo, dai generi, consapevole di scivolare nel ridicolo involontario, ma con un momento di disarmante sincerità.

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Ci sono voluti quarantasei anni (tanti ne sono trascorsi da Pensione paura) e un paio di collaborazioni (l’episodio Le chiese di legno nel film collettivo La domenica specialmente; la partecipazione alla regia di La casa nel vento dei morti) per il ritorno di Francesco Barilli dietro alla macchina da presa. Figura eclettica all’interno del variegato panorama bis italiano, artista e intellettuale a tutto tondo, oggi viene ricordato dai più per lo straordinario film d’esordio del lontano 1974: quel Il profumo della signora in nero che, in pieno boom del giallo all’italiana, allontanava con forza qualsiasi sospetto di derivazione argentiana (nonostante la presenza della protagonista Mimsy Farmer) per guardare invece a Polanski e al suo L’inquilino del terzo piano. Nei fatti, un incubo rococò che smantellava la placida e annoiata superficie borghese per metterne in risalto le pulsioni orrorifiche e cannibali, ancora oggi insuperato (nemmeno dal successivo Pensione paura, considerevolmente inferiore). Quasi mezzo secolo dopo, naturalmente, tutto è cambiato.

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C’è un perenne sentore di morte che attraversa Il paese del melodramma, dall’inizio alla fine, e sembra attaccarsi tanto ai volti quanto alle immagini: e infatti è proprio lei, la Morte in persona (interpretata da Luc Merenda) a braccare in continuazione il protagonista Carlo, ex cantante lirico caduto in disgrazia dopo aver perso moglie e figlia in un incidente aereo, per convincerlo a liberarsi del demone della bottiglia e a interpretare il Macbeth di Giuseppe Verdi. È un film di luoghi (il cimitero, la chiesa, il teatro, una Parma assolata e semideserta), quasi a sancire la solennità di un percorso a senso unico che non può finire che in un modo soltanto, e che per forza di cose richiama alla mente un’altra Opera, quella di Argento (anche lì, il Teatro Regio, il Macbeth…), pur muovendosi su coordinate diametralmente opposte. Il paese del melodramma è un film totalmente e irrimediabilmente fuori dal tempo, fuori dai generi, lontano dalle mode, forse persino consapevole di scivolare spesso e volentieri nel ridicolo involontario; classe 1943, Barilli ammicca alle nuove tecnologie (le riprese aeree effettuate con il drone, il digitale del serpente che esce dalla bocca di una ragazza) ma conferisce loro un’aura antica e demodé perchè quello che gli interessa è catturare il significato del Sacro e dell’Ignoto, anche – e soprattutto – a discapito della forma e della riuscita di un film coraggioso ma inevitabilmente schiacciato dal peso dell’ambizione. Sopra le righe, grottesco, eccessivamente subordinato alle ristrettezze di una produzione indipendente e quindi priva di grandi mezzi: forse è un esempio di cinema senile e senza un pubblico, ma alla fine quello che rimane è la disarmante sincerità dell’incontro con il prete (interpretato da Davide Pulici, cofondatore di Nocturno Cinema, qui capace di una breve interpretazione profonda e sofferta), dove la Morte viene finalmente raccontata per quello che è, senza mezzi termini. Cioè parte integrante della vita, Sorella Morte (“come la chiamava San Francesco”), impossibile da rifiutare ma da abbracciare e accettare con dolcezza.

 

Regia: Francesco Barilli
Interpreti: Luca Magri, Luc Merenda, Nina Torresi, Eugenio Maria Degiacomi, Francesco Barilli, Stefano Pesce, Virginia Barchi, Davide Pulici
Distribuzione: Avila Entertainment Srl
Durata: 86′
Origine: Italia, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
4 (2 voti)
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