JIM MCBRIDE, L'ultimo degli indipendenti

In occasione della presentazione, da Sentieri selvaggi, del libro "CINEMA, film e generi che hanno fatto la storia", di Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri, cui seguirà la visione di un film inedito di Jim Mc Bride, ci fa piacere ripubblicare questa intervista, inedita, al regista americano fatta a Pesaro nel 1994, da Giuseppe Gariazzo, Massimo Causo e Federico Chiacchiari

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david holzman's diaryL’underground. Il cinema hollywoodiano. Le produzioni indipendenti. I film per la televisione. Quella di Jim McBride è una delle filmografie più eclettiche del cinema statunitense contemporaneo e viene ripercorsa nella sua quasi totalità in questa intervista che, un pomeriggio del giugno 1994, io, Massimo Causo e Federico Chiacchiari effettuammo durante la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, dove il cineasta era stato invitato per presentare due film, il capolavoro d’esordio David Holzman’s Diary (1967) e Glen and Randa (1971), inseriti nella retrospettiva dedicata a cento anni di nuovo cinema.

McBride è autore di pochi film. La sua carriera si costruisce fra New York, Los Angeles e l’Europa ed è spesso interrotta da lunghi periodi di “vuoto (dal 1974 al 1983, e dal 2004 – ma l’ultimo film per il cinema, The Informant, ambientato a Belfast negli anni Ottanta con protagonista un ex militante dell’Ira, risale al 1997), colmati da molti progetti non portati a termine, da lavori per serie tv o dal cortometraggio Bem-Vindo a São Paulo, episodio del film collettivo Novo Mundo (2004), a tutt’oggi il suo testo più recente.

L’opera di McBride vive di uno sguardo sempre originale che l’attraversa, caldo, sensuale, non omologato, con cui l’autore mette in forma la rappresentazione della verità filtrata dall’artificio: nel finto diario David Holzman’s Diary come nei film collocati nei generi, dal noir al poliziesco alla biografia musicale. Il regista di All’ultimo respiro, The Big Easy, Great Balls of Fire lavora sulla carica sovversiva dei corpi, sull’erotismo e sul desiderio, sulla fisicità della musica. Per un cinema radicato nelle esperienze e nei toni del momento (la scena underground newyorkese degli anni Sessanta, la Hollywood degli anni Ottanta) e continuamente in viaggio verso infiniti luoghi di frontiera dove rimettersi in gioco.

Lei è nato nel 1941. Era ventenne negli anni Sessanta. Ha frequentato la New York University. Che tipo di rapporto ha avuto con i movimenti degli anni Sessanta, con le rivolte studentesche?

Ho finito l’università nel 1962, quindi ho cominciato a lavorare, a fare l’assistente. Ho lavorato per molte compagnie di New York che si occupavano di pubblicità e documentari, fino a quando ho trovato lavoro in una compagnia che faceva film per vendere appezzamenti di terra in Florida. Per me era una buona possibilità, avevo l’opportunità di occuparmi di tutto, dal montaggio alla fotografia.

Che studi ha fatto all’università?

Ho frequentato tre università. La prima in Ohio, nota per gli studi di letteratura americana – questo era il mio primo interesse. Poi, il terzo anno sono andato in Brasile per fare un anno di studi a San Paolo. Dopo sono tornato a New York, dove sono nato, e lì ho finito l’università, scoprendo il cinema perché ho conosciuto gente che seguiva corsi con quell’indirizzo. Non sapevo che persone normali potessero fare il cinema. E così ne ho imparato il linguaggio. Nella mia classe c’era Martin Scorsese, e l’insegnante era Haig Manoogian, di origine armena; per Martin è stato un mentore e ha co-prodotto il suo primo film (What’s a Nice Girl Like You Doing in a Place Like This?, 1963, nda).

I filmati pubblicitari che ha girato erano in pellicola o in video?

In 16mm, a colori.

Non ha risposto alla domanda sui movimenti… Era legato ai movimenti politicizzati dell’epoca?

Un poco…

Scorsese invece sì. Abbiamo visto cortometraggi che facevano parte del movimento politico.

Lui? Come… No.

Andava in piazza a riprendere le manifestazioni.

Martin Scorsese? Non è possibile. Lui è il regista meno politico che io conosca.

Probabile, ma un anno fa è venuto a Roma e ha mostrato dei documentari filmati da lui di manifestazioni degli anni Sessanta, ’66, ’67.all'ultimo respiro

Io pensavo di conoscere tutti i suoi film… Abbiamo fatto l’università insieme e lì Scorsese ha girato due cortometraggi per poi realizzare il suo primo lungometraggio, Who’s That Knocking at My Door? (Chi sta bussando alla mia porta, 1969, nda), nello stesso tempo in cui io facevo il mio primo film, David Holzman’s Diary. Abbiamo montato i nostri film nello stesso studio di montaggio. Ho visto tutto di quel periodo, ma niente manifestazioni politiche. Per rispondere alla vostra domanda, io ho partecipato un po’ alla politica di quell’epoca, facevo parte di un gruppo chiamato Newsreel.

Quindi ha conosciuto anche Jon Jost…

No, Jost era di San Francisco. Il gruppo operava in diverse città. Ho conosciuto altre persone, fra le quali Robert Kramer, più coinvolte di me nella politica, io ero più voyeur che partecipante. Poi, ho passato un periodo di interesse per i Weathermen, un po’ più tardi, all’inizio degli anni Settanta. E per SDS, la prima organizzazione rivoluzionaria studentesca. Molti di quelli che fondarono questa organizzazione negli anni Settanta cominciarono a fare cose contro la legge, a mettere bombe, e diventarono criminali. Divennero underground, nel senso di vivere nascosti, cambiando nome per sfuggire al sistema. In America erano molto famosi. A quell’epoca ho tentato di fare un film con loro, ma poi ho rinunciato per via delle difficoltà. Quelle sono state le mie relazioni con la politica del momento.

Il suo film d’esordio, David Holzman’s Diary, è molto legato al cinema underground americano degli anni Sessanta, al New American Cinema. Qual è stato il suo rapporto con quelle esperienze di rinnovamento radicale del linguaggio filmico?

Per me è difficile da spiegare, ho fatto parte di vari gruppi, però senza esserne troppo coinvolto. Prima di fare i miei film ho frequentato tutte le proiezioni del New American Cinema, conoscevo bene quella gente. Inoltre, ogni settimana nelle sale di New York si potevano vedere gli esperimenti del cinema verità realizzati da registi come Pennebaker e i fratelli Maysles. E io conoscevo anche loro. Ma quando ho girato David Holzman’s Diary non ero davvero inserito nel New American Cinema. Ero indipendente tra gli indipendenti.

Come nasce produttivamente Glen and Randa?

È una lunga storia. A quell’epoca nacque l’American Film Institute con l’intento di intervenire nella produzione di film sperimentali, ma dall’interno del mainstream. Io sono stato uno dei primi cineasti cui l’AFI chiese di lavorare. Mi diedero un po’ di soldi per scrivere la sceneggiatura, che scrissi con un amico, Lorenzo Mans. Alla fine, però, dopo due anni di ricerche, la produzione non trovò i soldi per realizzare il progetto, dicendomi che non avrebbe potuto finanziarmi e di fare quello che volevo. Dopo un anno ancora, credo, trovammo un produttore molto tradizionale, Sidney Glazier, che aveva prodotto il primo film di Mel Brooks. Credo che non sapesse cosa stavamo facendo. In questo modo siamo riusciti a fare il film, con pochi soldi, 280.000 dollari.

In quanto tempo?

Non ricordo esattamente, forse sei settimane.

Dove?

Nella California del Nord, in Oregon. Viaggiavamo magari decine di miglia per trovare il posto adatto anche per una sola inquadratura. Non eravamo molto organizzati.

Tra David Holzman’s Diary, che è del 1967, e Glen and Randa, del 1971, c’è My Girlfriend’s Wedding, del 1969. Un film che sembra gemello di David Holzman’s Diary

Dopo David Holzman’s Diary incontrai un nuovo distributore che voleva dare vita a un tipo di distribuzione alternativa. Gli affidai David Holzman’s Diary, che durava 74 minuti e che per la diffusione necessitava ancora di un po’ di materiale. Così mi chiese di girare un cortometraggio con 10.000 dollari. In quel periodo avevo conosciuto una ragazza di cui mi ero innamorato. Ero sposato e separato. Lei era inglese e voleva restare negli Stati Uniti. Così aveva organizzato un matrimonio con un ragazzo che non conosceva, che si occupava di politica e che era d’accordo a sposarla affinché potesse ottenere la Green Card. Mi sembrava il soggetto perfetto per fare un film con pochi soldi. Lo girammo in un giorno. Si tratta di un film molto semplice, una lunga intervista a questa ragazza, una persona molto interessante, che racconta la storia della sua vita. In seguito girammo il matrimonio. Ma il film finito durava circa sessanta minuti, era ben più lungo dei dieci minuti previsti…

Quindi non fu possibile abbinarli…

the wrong manNo. E il distributore fallì prima di distribuirli.

Glen and Randa stilisticamente, a livello espressivo, sembra un film più classico, per una certa ricerca formale nelle inquadrature, nei paesaggi per esempio, rispetto ai precedenti e al successivo Pictures from Life’s Other Side, più spinti sul terreno di una ricerca visiva, a partire dall’uso della camera a spalla. Ci ha dunque colpito la collocazione di Glen and Randa tra film così estremi, nuovi linguisticamente, e ci chiedevamo come mai avesse scelto di girare Glen and Randa in una maniera, diciamo, così tradizionale.

I film sono tutti tradizionali, ma di diverse tradizioni. È importante capire che David Holzman’s Diary è un tipo di critica di quel modo di filmare. Ho scelto quello stile perché parlavo di quello stile. Era lo stile necessario per quel film. Allo stesso modo, ho cercato di trovare un altro stile per Glen and Randa, che affrontava un altro soggetto. Ero abbastanza ben educato sul linguaggio cinematografico, mi ero confrontato con molti tipi di film e con molte maniere di esprimersi. Ogni film cerca il proprio stile per rappresentarsi.

Un film molto particolare nella sua filmografia è Pictures from Life’s Other Side

Voi avete visto Pictures? Dove?…

Al Festival Cinema Giovani di Torino nell’anno in cui c’era la retrospettiva sul New American Cinema. Ci sembra esistano delle affinità tra quel film e Glen and Randa, due film quasi contemporanei. Entrambi mettono in scena un viaggio molto intimo attraverso un pezzo di America compiuto da una coppia e dove una donna viene filmata mentre sta partorendo.

Sono molto contento che conosciate Pictures… In quel film-viaggio protagonisti siamo io, la mia compagna, che è la stessa ragazza di My Girlfriend’s Wedding e che mentre giravamo era incinta di nostro figlio, e il mio figliastro. Glen and Randa fu girato prima. Vi ho parlato dell’American Film Institute che sviluppò la sceneggiatura di quel film. Quando non riuscirono più a trovare i soldi per realizzarlo, mi dissero che se in seguito avessi voluto fare un piccolo film con 15.000 dollari avrei potuto chiederglieli. Così, quando terminai Glen and Randa chiesi loro quei soldi per fare Pictures from Life’s Other Side. Non ho pensato a una relazione tra i due film, ma avete ragione nel trovarla, ci sono scene quasi identiche, anche se non è stata una cosa cosciente.

Vedendo David Holzman’s Diary si pensa al cinema di Jean-Luc Godard. E forse non è un caso che il suo primo film hollywoodiano, All’ultimo respiro, sia il remake di Fino all’ultimo respiro di Godard.

Sì, in David Holzman’s Diary parliamo di Godard, e non è difficile capire perché. Negli anni Sessanta Godard era l’icona del nuovo cinema per tutti i cineasti, e per me particolarmente. Fino all’ultimo respiro è il film che mi fatto decidere di fare cinema. Non so cos’altro aggiungere, oltre che in quell’epoca Godard era la persona che cercava sempre, con nuove sfide, modi innovativi di esprimersi. E il linguaggio era l’aspetto che più mi interessava. Come dicevo, ogni film ha un suo stile. Per cui, i film che ho fatto per gli studios hanno uno stile più tradizionale proprio perché quelle storie avevano bisogno di essere filmate in un modo più tradizionale.

Come mai ha sentito l’esigenza, in Pictures from Life’s Other Side, di raccontare la sua vita mettendosi in scena così radicalmente, spingendo fino in fondo la necessità di essere fisicamente presente e di filmare. Ci sembra una scelta morale, che spezza il filo invisibile che separa la realtà dalla finzione, come quando in David Holzman’s Diary la protagonista dice di non voler essere filmata mentre dorme

Credo che negli anni Sessanta abbiamo avuto, tutti noi cineasti, un interesse per la verità, la vita di tutti i giorni, piuttosto che per quella vita che si vedeva sullo schermo, che veniva rappresentata nel cinema più convenzionale. La cosa che a me interessa è la mia propria vita.

Filmare e riprendere la sua vita diventa quasi una magnifica ossessione. È bellissima la parte di David Holzman’s Diary, che già ricordavamo, in cui la ragazza lascia David perché non vuole essere filmata mentre dorme. Significava non voler essere ripresi nell’atto dell’incoscienza, nel riprendere ci deve essere comunque una forte coscienza.

Grazie.

Nel 1974 gira Hot Time, Sweet Sixteen, A Hard Day for Archie

Sono tre titoli diversi per uno stesso film (uscito in Italia con il titolo Nell’eccitante attesa dell’accoppiamento armonico, nda). È un film sulla linea tra il pornografico e l’erotico, con una storia divertente. In quel periodo stavo a New York ed ero disperato perché non riuscivo a trovare soldi per fare film, lavoravo come taxista. Un giorno incontrai una persona con la quale avevo frequentato l’università. Lui e suo padre producevano film pornografici, mi disse che stavano preparando un nuovo film e che avrei potuto dirigerlo. Accettai. C’erano molte regole da rispettare: avrei dovuto scrivere, dirigere e montare il film per 5.000 dollari in due settimane. Doveva essere una commedia sulla sessualità dei teen-ager, ogni scena doveva avere persone nude o parlare di sesso, ma i personaggi non dovevano mai farlo, altrimenti si sarebbe caduti nel pornografico, quindi non c’erano scene hard. Va ricordato che la situazione legale era molto strana: in quegli anni in America si potevano fare legalmente dei film porno, ma la Corte Suprema aveva preso una decisione in base alla quale ogni singola città great balls of firepoteva decidere cosa era pornografico e cosa no, non esisteva uno standard al riguardo, quindi i produttori di quel genere di film erano in pericolo, potevano finire in prigione perché nessuno era in grado di definire con chiarezza quella situazione. Così, tutti erano spaventati nel fare film hard-core e prendevano la decisione di realizzare film meno espliciti sessualmente. Ed è quello che abbiamo fatto. Girai il film e terminata la mia partecipazione me ne andai. Ma quando uscì nelle sale la Corte Suprema aveva deciso di cambiare la legge sulla pornografia e di ammettere l’hard-core. Avevamo dunque un film che non era hard-core e che nessuno voleva vedere. La produzione chiamò un altro regista per girare scene hard da inserire nel mio film, che avevo girato in 35mm, a colori e con attori giovani, freschi, innocenti. Invece gli inserti hard erano in 16mm, in bianconero e con attori junkies e pieni di tatuaggi. Era una cosa terribile. Ma quel regista guadagnò molti soldi!

Se il produttore glie lo avesse permesso, in una prima fase, avrebbe girato il film con scene hard o no?

Sì, con piacere.

Glie lo chiediamo perché è interessante il lavoro che lei fa sul corpo nudo, come in Pictures from Life’s Other Side, in Glen and Randa

È vero, mi piace, mi interessa la sessualità nel cinema, per cui nei miei film cerco sempre di creare delle situazioni di questo genere.

Però in quei film c’è sempre un rapporto con il corpo molto pulito, non in senso morale, ma nel senso di come presentare e rappresentare il corpo. Invece, a partire da All’ultimo respiro, e in film come Uncovered o The Wrong Man, quelli di una “seconda fase” della sua filmografia, ci sembra ci sia una forte componente di desiderio nel filmare i corpi di attori famosi: Richard Gere in All’ultimo respiro, Rosanna Arquette in The wrong Man, Dennis Quaid in Great Balls of Fire e The Big Easy… Mentre i suoi primi film sembravano quasi dei documentari su dei corpi…

Capisco la divisione della mia opera in due fasi, ma voi non sapete quello che non ho fatto. Questo vuol dire che alle due cosiddette fasi ne esiste un’altra. Io ho scritto molto, ma non sempre sono riuscito a trovare i soldi per girare le mie sceneggiature. Tra il 1975 e il 1976 ho scritto una sceneggiatura molto forte, il cui soggetto era la sessualità. Era una cosa che in quel momento avrei davvero voluto fare, ma nessuno voleva darmi i soldi per realizzarla. Quello della sessualità è un elemento che attraversa tutta la mia filmografia, dall’inizio a oggi. Ma quello che sono riuscito a fare non è tutto quello che avrei voluto fare. Quello che ho fatto nella “seconda fase” è solo quello che mi hanno permesso di fare. Vuol dire che se avessi potuto seguire il mio vero interesse nei miei film avrei messo cose sessualmente più forti, più profonde, non solo legate alla visione dei corpi. Voi citavate Rosanna Arquette, mi interessava particolarmente la sessualità del suo personaggio, anche se non è una sceneggiatura che avevo scritto io.

Inoltre, in tutti questi film c’è un rapporto molto fisico non solo con i corpi ma anche con le città, i luoghi…

Sì, è vero.

Tra il primo e il secondo periodo della sua carriera c’è un buco di quasi dieci anni. Che cosa ha fatto?

Sono stato disoccupato.

Ma come succede che uno fa dei film indipendenti, poi rimane senza lavorare per dieci anni e quindi ricomincia a lavorare a Hollywood con Richard Gere?

Non vi ho detto che negli anni Settanta sono andato a Hollywood per fare un film che alla fine non sono riuscito a fare, trascorrendo due anni per prepararlo. Non so che dire, ho lavorato in tutto quel periodo, ma per me erano anni difficili per fare cinema. Stavo vivendo la mia vita hippy e al tempo stesso stavo sempre preparando, scrivendo, cercando soldi per fare film. Nel ’75 sono andato a Hollywood per cercare lavoro. Credo che abbiamo scritto la nostra versione di All’ultimo respiro nel ’76. Poi, ho impiegato cinque anni per trovare i soldi per farlo.

E come ci è riuscito?

È una storia lunga, come tutte le storie. Un produttore che si chiamava Martin Erlichman si interessò all’idea di fare il remake del film di Godard, anche se non l’aveva mai visto. Sapeva che era un film famoso, ma completamente sconosciuto in America. Trovò i soldi per la sceneggiatura, che scrissi insieme al mio amico L.M. Kit Karson. Inizialmente, la scelta per il ruolo di protagonista cadde su Robert De Niro, la Universal non voleva un altro attore. Fu mandata la sceneggiatura a De Niro, e lui disse che era interessato, ma non poteva decidere. Stava girando Toro scatenato e ogni due settimane lo chiamavo. Lui rispondeva sempre: “Non sono sicuro, richiamami tra due the big easysettimane”. Ho fatto così per quattro mesi, e sempre lui continuava a non dare una risposta chiara. Allora ho chiamato Scorsese per chiedergli di parlare con De Niro e sapere se accettava o meno il ruolo. Non mi importava se diceva sì o no, avevo bisogno di una risposta. E lui disse no. A quel punto la Universal non si interessò più al film. Non ricordo tutta la storia in ordine, ma a un certo punto un altro studio si fece avanti. La sceneggiatura fu mandata a John Travolta che subito mostrò interesse ma poi, dopo un colloquio con me, si tirò indietro. Lo stesso accadde con Al Pacino. Erano grandi star e l’idea di fare un film con un regista sconosciuto faceva loro paura. Finalmente, il mio agente mi disse: “Nessuno vuole fare questo film con te come regista, ma a tutti piace la sceneggiatura. Se tu lo lasci fare a un altro regista, la prossima volta tu potrai dirigere un film”. Accettai e la regia fu affidata all’inglese Frank Roddam, il regista di Quadrophenia, che era amico di Richard Gere. Solo che, durante la preparazione, Frank se ne andò perché un suo progetto aveva trovato modo di essere realizzato. Bisognava cercare un altro nome e Gere fece una lista di registi che avrebbe accettato. E io non c’ero. Spuntò il nome di Michael Mann, un altro amico di Richard. Mann riscrisse completamente la sceneggiatura e poi se ne andò per realizzare un altro suo progetto. In quel momento la produzione iniziò ad avere dei problemi perché il film andava fatto entro un determinato tempo, avendo Richard Gere altri impegni. C’era tutto: la sceneggiatura, la star, i soldi, mancava il regista e tutti quelli nella lista di Gere non potevano o non volevano. Così, il capo della casa di produzione disse che avrebbe suggerito me. Richard aveva visto David Holzman’s Diary e disse: “Conosco questo regista e credo che sia un buon regista, ma che non sappia fare un film con una star”. E non volle incontrarmi. Infine, quando tutti i nomi rifiutarono, chiamai Paul Schrader, che conoscevo e sapevo che era un amico di Richard, dicendogli di dire a Richard che ero un bravo ragazzo… Finalmente Richard acconsentì a incontrarmi, andai a New York e passai tre giorni con lui. Era freddo, riservato, fino a quando parlai di Jerry Lee Lewis mostrandogli una sua foto. Tutto cambiò… anche se non sciolse ancora tutte le riserve nei miei confronti. Dopo due o tre settimane e un ulteriore incontro molto dogmatico con il presidente della Orion Pictures, accettò che io dirigessi il film.

E si tornò alla sceneggiatura originale?

Sì.

Ci interessa sapere come ha costruito la sceneggiatura: partendo da Godard? rivedendo il film? giocando sulle differenze di epoca e di personaggi?

Ho trovato una copia della sceneggiatura del film di Godard pubblicata da una rivista francese, L’Avant-Scène, l’ho tradotta e abbiamo semplicemente deciso di raccontare la stessa storia ma in una maniera molto diversa, ambientandola a Los Angeles. Sembrava stupido fare un film con lo stesso linguaggio che Godard aveva inventato. Facevamo un film hollywoodiano e dovevamo farlo in uno stile hollywoodiano, venendo da un’altra tradizione. Per me Los Angeles era una città nuova. Vengo da New York e Los Angeles era un luogo molto strano, così il processo di scrittura divenne per me anche un modo di scoprire la città.

Perché Jerry Lee Lewis?

Perché in un certo modo rappresentava alcune delle stesse cose che Bogart rappresentava per Belmondo. È un’icona della cultura popolare, di chi stava ai margini della vita normale, un eroe-bandito. E poi perché lo amavo molto…

Come mai non ha proposto a Richard Gere di fare Great Balls of Fire?

È stato Dennis Quaid a propormi di farlo. Sette anni prima mi ero interessato alla storia di Jerry Lee Lewis e avevo cercato di farmi finanziare un film sulla sua vita. Ma a nessuno piaceva l’idea. Non so com’è andata, ma sette anni dopo un produttore ha proposto il film a Dennis Quaid che mi ha coinvolto nel progetto.

Prima lei parlava di cultura popolare. I fumetti hanno un ruolo importante nel suo cinema. In Glen and Randa si fa riferimento a Wonder Woman. In All’ultimo respiro a Silver Surfer. Ha dunque un interesse particolare per la cultura dei fumetti?

Sì, è un tipo di linguaggio molto diretto che si può usare nel cinema in modo metaforico. Uno dei progetti che avrei voluto realizzare e che non sono mai riuscito a concludere era basato sul fumetto di Frank Miller Elektra: Assassin. È una storia favolosa. Miller è colui che ha inventato il nuovo Batman, Darkman, e il personaggio di Electra, una donna traumatizzata da giovane, che non parla, perché il padre è stato ucciso da una gang di Ninja. E lei diventa una Ninja assassina. È una storia bellissima, ma costava molto realizzarla e non ce l’ho fatta.

Si è integrato a Hollywood o si sente un alieno?

Sono un alieno. Volevo integrarmi, ho provato…

Cosa le ha reso impossibile integrarsi? Cosa le dà più fastidio di Hollywood?

Io credo… Non so perché. Ma forse è semplice: non ho mai fatto film di successo, che hanno incassato. Nel momento in cui farò hits sarò integrato…

Questo per quanto riguarda gli altri. Ma da parte sua?

Certo, mi piacerebbe avere un film di successo, ma molte volte mi hanno offerto film che non mi interessavano. In questi ultimi anni mi considero un regista in prestito, nel senso che faccio film non originati da me, ideati da altri. Ma anche se non posso fare esattamente quello che voglio, non faccio mai film che non voglio fare. Sono molto pochi i progetti che mi piacciono e che piacciono anche alle persone che li dovrebbero finanziare. Tutto quello che ho fatto sono contento di averlo fatto, anche se recentemente non ho fatto delle cose molto personali.

Non ritiene che The Wrong Man sia molto personale?

The Wrong Man è il progetto che ho cambiato meno, nel senso che la sceneggiatura era già scritta, tutto era stato organizzato prima del mio intervento per cui non ho quasi modificato nulla, tranne qualcosa di azione alla fine. Ho amato molto la sceneggiatura e ho cercato di realizzarla nel modo migliore. Ma non è un film molto personale, anche se mi sono identificato con i personaggi e con le situazioni. Però non li ho creati io e dunque non sento davvero una relazione personale con il film.

Eppure, anche se non c’è un soggetto, una sceneggiatura davvero personale, ci è sembrato che il suo modo di lavorare, di intervenire su una base già pre-esistente, preparata, fosse molto personale. The Wrong Man è un film, come altri suoi, che mette in scena un viaggio impossibile. Spesso nel suo cinema i personaggi si mettono in viaggio e poi rimangono come in surplace in attesa di compiere un gesto che non riusciranno del tutto a realizzare. Una fuga cercata, ma quasi sempre impossibile da portare a termine. In questo senso i finali dei suoi film ci sembrano particolarmente interessanti e significativi. In Glen and Randa i personaggi spariscono in mezzo al mare. In The Wrong Man la fuga di John Lithgow e Rosanna Arquette e dell’uomo che hanno coinvolto nei loro giochi viene negata in una stazione ferroviaria dove c’è la sparatoria finale. In The Big Easy, dopo tutto l’intreccio poliziesco, Dennis Quaid e Ellen Barkin spariscono dall’inquadratura ballando. In Uncovered mentre la gente segue la vendita del quadro all’asta i due protagonisti, la ragazza e il giocatore di scacchi, sono in fondo alla sala, come già da un’altra parte… Lo stesso finale di All’ultimo respiro, anche se in quel caso essendo un remake c’è un preciso riferimento al testo originale… Ci sembrano tutti finali che rappresentano la negazione di una fuga, mentre il modo di filmarli (a parte in All’ultimo respiro, che si chiude su un fermo immagine) se da una parte nega quella fuga dall’altra disegna dei finali visivamente aperti, lasciando che l’inquadratura finale continui fino alla fine dei titoli di coda, in un margine di sospensione del testo… Le cose finiscono per i personaggi, ma non per i film, che continuano oltre la fine delle storie. È una scelta formale che si ripete, precisa, in opere molto diverse e che quindi ci pare teorica, quasi una sua “firma”.

Le cose non finiscono con la fine dei film, è vero… È interessante quello che dite e sono sicuro che avete ragione, ma mentre facevo i film non ho pensato a queste interpretazioni o a una simile ossessione presente nelle mie opere nel corso degli anni. Noto queste analogie ora che ne parlate, ma non le ho fatte con intenzione. D’altronde, si dice che un regista fa sempre lo stesso film, racconta sempre la stessa storia!…

Uncovered inizialmente si chiamava The Flemish Board

È la traduzione inglese del titolo di un romanzo spagnolo molto famoso in Spagna (La tavola fiamminga di Arturo Pérez-Reverte, nda). Ma è molto brutta, per cui abbiamo cambiato il titolo.

Rispetto ai film precedenti, Uncovered non ha attori famosi. Come è nato il progetto del film?

Un giovane produttore colombiano che lavorava in Spagna aveva comprato i diritti del romanzo e mi contattò per realizzarlo. Non so perché accettai, credo perché volevo fare un film europeo in inglese per un mercato più ampio di quello che avrebbe avuto un film spagnolo. Lessi il romanzo e lo trovai interessante, anche se non pensavo davvero di farne un film perché non lo ritenevo molto commerciale e perché il produttore non mi sembrava uno che avrebbe poi potuto trovare i soldi per finanziarlo. Non avevo molta fiducia nel futuro del progetto, che però mi intrigava. Invece, lentamente prese forma e andammo a Londra per scegliere un attore.

Chi sono i due attori?

Sono sconosciuti e questo causò problemi per cercare i finanziamenti. La compagnia francese voleva un’attrice americana famosa, così la sceneggiatura fu mandata a Bridget Fonda, Winona Ryder e Uma Thurman. Ma tutte e tre risposero negativamente, e le altre attrici interessate non mi piacevano, non pensavo che potevano essere adatte a quel ruolo. Decisi dunque di indirizzarmi verso attori meno noti, la produzione accettò quel cambiamento, ma a quel punto i soldi a disposizione diminuirono. E forse è stato un errore, perché senza attori famosi adesso nessuno vuole comprare un film. Forse in Italia non importa, ma da noi un certo tipo di film fatto in Europa in inglese con un attore francese, uno tedesco, uno americano, uno inglese rappresenta un problema per il linguaggio perché tutti parlano con accenti diversi. Quando Novecento è uscito negli Stati Uniti il mélange di accenti risultava ridicolo. Dopo, il film fu fatto uscire nella versione italiana con i sottotitoli in inglese ed ebbe un grande successo. Io non volevo fare un film così, ma tutto con attori inglesi e sono contento degli attori che ho scelto. Ma dal punto di vista commerciale è stata una scelta sbagliata.

Nel 1986 ha girato The Once and Future King, episodio della serie tv The Twilight Zone.

È una storia fantastica a cui non ho potuto resistere. Un film di mezz’ora con protagonista un uomo che fa l’imitazione di Elvis Presley, si veste come lui, canta come lui. Dopo un incidente con l’auto, si sveglia in una strada sconosciuta, in mezzo a un campo, e quando giunge un’altra macchina fa l’autostop e sale su di essa. La persona al volante è il vero Elvis, prima che incida il suo disco d’esordio. I due diventano amici e Elvis, impressionato da quell’imitatore che sa molte cose su di lui, comincia a credere che l’uomo sia il fratello perduto. Quando sta per incidere il primo disco e fare una cosa sbagliata, l’imitatore lo corregge e gli canta la sua prima canzone, That’s All Right. Elvis è scandalizzato, dice: “Questa è la musica dei neri, cosa dirò a mia madre, non posso farlo”. Così i due cominciano a discutere, anche fisicamente. Lottano, il vero Elvis muore e l’altro prende il suo posto. Nel finale, alla fine della sua vita a Las Vegas, il protagonista racconta la sua storia a un giovane fan e si scopre che in realtà lui è il fratello. È una storia meravigliosa.

uncoveredPoi, gira tre episodi della serie The Wonder Years

Sono meno interessanti. Si tratta di una celebre serie televisiva dove un ragazzo racconta in prima persona la sua storia e quella della sua famiglia negli anni Sessanta. Bisogna sapere che nella televisione americana il regista non è molto importante, lo è il produttore. E in questo caso il produttore, un tipo molto forte con cui la maggior parte dei registi non voleva lavorare, e neanch’io, aveva anche scritto le storie. Ma nel momento in cui mi hanno contattato io non lavoravo e mi sembrò interessante accettare. Il primo giorno, mentre stavo sul set organizzando un’inquadratura, l’assistente regista mi si avvicinò e disse che a Bob, il produttore, quell’inquadratura non piaceva. Così scoprii che dal suo ufficio attraverso un monitor guardava quello che stavo girando, avrebbe voluto essere lui il regista ma non ne era in grado. Reagii, dicendo che non volevo lavorare se dovevo fare quello che lui voleva. Gli parlai e mi lasciò più libertà.

Ha mai girato dei video musicali?

No, non mi hanno mai chiesto di farli. Potrei dire che è una posizione filosofica, ma non è vero, semplicemente non me li hanno mai chiesti.

Ma li farebbe?

Non so… Condivido lo stile dei clip, sono entusiasta della musica. Nei miei film la musica ha un ruolo importante. Qualche volta penso alla musica quando creiamo le immagini, e in sala di montaggio uso musica, sempre.

La colonna sonora di The Big Easy l’ha scelta lei?

Sì.

Perché le piace quel tipo di musica o perché era giusta in quel contesto?

In ogni film che faccio spendo grandi energie per la musica, ma, tranne che per The Wrong Man con i Los Lobos, non ho mai avuto una buona relazione con i compositori, non sono mai contento degli score che compongono. Per The Big Easy abbiamo rifiutato la musica tre volte e poi l’abbiamo sostituita con musica che abbiamo scelto noi perché era più interessante.

Oltre a quella che si sente nei suoi film, che musica ascolta?

Quella che si sente nei film che ho fatto. Ho gusti molto eclettici, ascolto molto la musica nera, quella africana, attualmente quella del Madagascar, è fantastica, quando la senti la riconosci subito, ma allo stesso tempo è completamente strana. Un effetto incredibile.

Avevamo intuito questa sua passione per la musica nera, eppure nei suoi film i personaggi sono bianchissimi… E non a caso ha fatto un film su Jerry Lee Lewis e non su un musicista nero… Come mai?

Non si può fare un film sui neri. Non si può e se si potesse sarebbe difficile per me perché non sono nero e la gente nera sarebbe molto arrabbiata. Però ho sempre cercato di fare un film in Africa perché l’Africa mi appassiona molto.

Conosce il cinema africano?

Molto poco. Ho visto qualche film di Ousmane Sembene, che adoro, è un grande regista. E conosco il cinema di Souleymane Cissé. Ma a Los Angeles, dove vivo da diciotto anni, non si vede niente di cinema africano.

Cosa pensa di Spike Lee?

Mi sono piaciuti Lola Darling e Fa’ la cosa giusta. Credo che abbia talento e che i suoi primi film rivelino un interesse nei confronti dei personaggi, poi è diventato troppo politico con film schematici che non mi interessano.

Spesso i suoi film si inscrivono nel thriller, nel noir, nel poliziesco…

Amo questi generi e ho scoperto che so farli bene. È anche vero che è più facile trovare soldi facendo film simili… E poi credo che ci sia sempre bisogno della morte in un film, non so esattamente perché, forse perché per capire la vita bisogna avere la morte con cui compararla…

Tra Great Balls of Fire e The Wrong Man dirige il film per la televisione Blood Ties.

Si tratta dell’episodio pilota di una serie, che poi non fu fatta, prodotta dai produttori di Dynasty. Si fanno i pilot per valutare il gradimento degli spettatori. Ci sono molti pilot e poche serie. A me Blood Ties piace molto, è la storia, divertente, di una famiglia, tipo quella del Padrino, ma si tratta di vampiri che ai giorni nostri si trasferiscono dalla Romania negli Stati Uniti. Gli anziani vogliono mantenere le tradizioni del paese lontano, mentre i giovani vogliono integrarsi nella società californiana.

Ha scritto anche sceneggiature dirette da altri registi?

Sì, alcuni anni fa ho scritto la sceneggiatura per Lady Beware (All’improvviso uno sconosciuto, 1987, di Karen Arthur, nda), ma non era un bel film. Ho lavorato una volta a quella sceneggiatura, ma sono sicuro che in seguito altri l’hanno riscritta. Il film fu girato tre o quattro anni dopo il mio intervento.

Prima ha detto che gli ultimi film li sente meno suoi perché non li ha scritti. Non è questa una concezione europea del cinema e non americana?

Sì.

Si sente dunque più europeo?

Il mio interesse per il cinema è nato con il cinema europeo. Dopo aver scoperto il cinema italiano, francese, svedese, ho scoperto il cinema americano. Ho scoperto Howard Hawks dopo aver scoperto Jean-Luc Godard. Mi trovo sospeso tra questi due mondi. Mi sento molto americano nella sensibilità, ma il mio modo di lavorare è più europeo.

Quali sono le sue origini?

Irlandesi e russe. Mia madre è ebrea russa, mio padre cattolico irlandese.

Si sente un autore?

Sì, cerco di mettere me stesso in qualsiasi cosa che faccio. Chiaramente preferisco fare le cose più personali rispetto a quelle su commissione, ma sono abbastanza contento di tutto quello che ho fatto. Non mi vergogno di nulla. Non faccio una cosa per soldi e un’altra per l’anima. Tutto quello che faccio lo faccio con tutta l’intensità che ho. Ma è chiaro che se avessi potuto fare quello che volevo avrei fatto cose più personali.

Però nei suoi film mantiene sempre uno sguardo molto personale.

Sì, ed è per questo che non lavoro più con gli studios.

Quando farà un western?

Ho passato due anni della mia vita a preparare un western. Era il 1972, dopo Glen and Randa. Fui invitato a Hollywood dalla BBS, che aveva fatto Easy Rider e Cinque pezzi facili e che voleva scoprire un nuovo talento… Così, io e l’amico con cui avevo scritto Glen and Randa scrivemmo una storia sui Mountain Men, un tipo di free western, prima del western e dei cowboy, ambientata nell’Ovest degli Stati Uniti, nella stessa epoca di Corvo Rosso non avrai il mio scalpo. La nostra era una storia molto diversa, una buona sceneggiatura che non si girerà mai. Mi piacerebbe molto fare questo film, ma è impossibile, è sempre una questione di diritti. Ho scritto la sceneggiatura per la BBS, una divisione della Columbia Pictures, e quando il film non è stato fatto la Columbia è diventata proprietaria dei diritti. Molte volte ho chiesto di comprarli, ma loro non volevano. Normalmente uno Studio non vende i diritti di un film, anche se non lo vuole fare, per impedire che altri lo realizzino e abbiano successo. Il mio miglior lavoro non è sullo schermo…

Ci piacerebbe intitolare l’intervista “L’ultimo degli indipendenti”…

Va bene. Non è vero, ma va bene.

(Inedita)

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    JIM MCBRIDE, L'ultimo degli indipendenti

    /jim_mc_bride_e_richard_gere_sul_set_di_breathlessEsce in questi giorni un bellissimo e imperdibile libro pieno di cinema: Conversazioni. Il cinema nelle parole dei suoi autori, edito da Lineadaria, è una raccolta di 40 interviste a cineasti di tutto il mondo (Naderi, Bellocchio, Kramer, Penn, Ben Mahmoud, Sayles, Vanzina, Winspeare, Cissè, Zulawski, Sokurov, Ki-Duk, Malas, ecc…), fatte con il meraviglioso sguardo nordsudovest dal critico Giuseppe Gariazzo, una delle firme storiche di Sentieri selvaggi. Per presentarlo ai nostri lettori abbiamo scelto di pubblicare questa intervista, inedita, al regista americano Jim Mc Bride, fatta a Pesaro, nel 1994, in compagnia di Massimo Causo e Federico Chiacchiari

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    david holzman's diaryL’underground. Il cinema hollywoodiano. Le produzioni indipendenti. I film per la televisione. Quella di Jim McBride è una delle filmografie più eclettiche del cinema statunitense contemporaneo e viene ripercorsa nella sua quasi totalità in questa intervista che, un pomeriggio del giugno 1994, io, Massimo Causo e Federico Chiacchiari effettuammo durante la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, dove il cineasta era stato invitato per presentare due film, il capolavoro d’esordio David Holzman’s Diary (1967) e Glen and Randa (1971), inseriti nella retrospettiva dedicata a cento anni di nuovo cinema.

    McBride è autore di pochi film. La sua carriera si costruisce fra New York, Los Angeles e l’Europa ed è spesso interrotta da lunghi periodi di “vuoto (dal 1974 al 1983, e dal 2004 – ma l’ultimo film per il cinema, The Informant, ambientato a Belfast negli anni Ottanta con protagonista un ex militante dell’Ira, risale al 1997), colmati da molti progetti non portati a termine, da lavori per serie tv o dal cortometraggio Bem-Vindo a São Paulo, episodio del film collettivo Novo Mundo (2004), a tutt’oggi il suo testo più recente.

    L’opera di McBride vive di uno sguardo sempre originale che l’attraversa, caldo, sensuale, non omologato, con cui l’autore mette in forma la rappresentazione della verità filtrata dall’artificio: nel finto diario David Holzman’s Diary come nei film collocati nei generi, dal noir al poliziesco alla biografia musicale. Il regista di All’ultimo respiro, The Big Easy, Great Balls of Fire lavora sulla carica sovversiva dei corpi, sull’erotismo e sul desiderio, sulla fisicità della musica. Per un cinema radicato nelle esperienze e nei toni del momento (la scena underground newyorkese degli anni Sessanta, la Hollywood degli anni Ottanta) e continuamente in viaggio verso infiniti luoghi di frontiera dove rimettersi in gioco.

    Lei è nato nel 1941. Era ventenne negli anni Sessanta. Ha frequentato la New York University. Che tipo di rapporto ha avuto con i movimenti degli anni Sessanta, con le rivolte studentesche?

    Ho finito l’università nel 1962, quindi ho cominciato a lavorare, a fare l’assistente. Ho lavorato per molte compagnie di New York che si occupavano di pubblicità e documentari, fino a quando ho trovato lavoro in una compagnia che faceva film per vendere appezzamenti di terra in Florida. Per me era una buona possibilità, avevo l’opportunità di occuparmi di tutto, dal montaggio alla fotografia.

    Che studi ha fatto all’università?

    Ho frequentato tre università. La prima in Ohio, nota per gli studi di letteratura americana – questo era il mio primo interesse. Poi, il terzo anno sono andato in Brasile per fare un anno di studi a San Paolo. Dopo sono tornato a New York, dove sono nato, e lì ho finito l’università, scoprendo il cinema perché ho conosciuto gente che seguiva corsi con quell’indirizzo. Non sapevo che persone normali potessero fare il cinema. E così ne ho imparato il linguaggio. Nella mia classe c’era Martin Scorsese, e l’insegnante era Haig Manoogian, di origine armena; per Martin è stato un mentore e ha co-prodotto il suo primo film (What’s a Nice Girl Like You Doing in a Place Like This?, 1963, nda).

    I filmati pubblicitari che ha girato erano in pellicola o in video?

    In 16mm, a colori.

    Non ha risposto alla domanda sui movimenti… Era legato ai movimenti politicizzati dell’epoca?

    Un poco…

    Scorsese invece sì. Abbiamo visto cortometraggi che facevano parte del movimento politico.

    Lui? Come… No.

    Andava in piazza a riprendere le manifestazioni.

    Martin Scorsese? Non è possibile. Lui è il regista meno politico che io conosca.

    Probabile, ma un anno fa è venuto a Roma e ha mostrato dei documentari filmati da lui di manifestazioni degli anni Sessanta, ’66, ’67.all'ultimo respiro

    Io pensavo di conoscere tutti i suoi film… Abbiamo fatto l’università insieme e lì Scorsese ha girato due cortometraggi per poi realizzare il suo primo lungometraggio, Who’s That Knocking at My Door? (Chi sta bussando alla mia porta, 1969, nda), nello stesso tempo in cui io facevo il mio primo film, David Holzman’s Diary. Abbiamo montato i nostri film nello stesso studio di montaggio. Ho visto tutto di quel periodo, ma niente manifestazioni politiche. Per rispondere alla vostra domanda, io ho partecipato un po’ alla politica di quell’epoca, facevo parte di un gruppo chiamato Newsreel.

    Quindi ha conosciuto anche Jon Jost…

    No, Jost era di San Francisco. Il gruppo operava in diverse città. Ho conosciuto altre persone, fra le quali Robert Kramer, più coinvolte di me nella politica, io ero più voyeur che partecipante. Poi, ho passato un periodo di interesse per i Weathermen, un po’ più tardi, all’inizio degli anni Settanta. E per SDS, la prima organizzazione rivoluzionaria studentesca. Molti di quelli che fondarono questa organizzazione negli anni Settanta cominciarono a fare cose contro la legge, a mettere bombe, e diventarono criminali. Divennero underground, nel senso di vivere nascosti, cambiando nome per sfuggire al sistema. In America erano molto famosi. A quell’epoca ho tentato di fare un film con loro, ma poi ho rinunciato per via delle difficoltà. Quelle sono state le mie relazioni con la politica del momento.

    Il suo film d’esordio, David Holzman’s Diary, è molto legato al cinema underground americano degli anni Sessanta, al New American Cinema. Qual è stato il suo rapporto con quelle esperienze di rinnovamento radicale del linguaggio filmico?

    Per me è difficile da spiegare, ho fatto parte di vari gruppi, però senza esserne troppo coinvolto. Prima di fare i miei film ho frequentato tutte le proiezioni del New American Cinema, conoscevo bene quella gente. Inoltre, ogni settimana nelle sale di New York si potevano vedere gli esperimenti del cinema verità realizzati da registi come Pennebaker e i fratelli Maysles. E io conoscevo anche loro. Ma quando ho girato David Holzman’s Diary non ero davvero inserito nel New American Cinema. Ero indipendente tra gli indipendenti.

    Come nasce produttivamente Glen and Randa?

    È una lunga storia. A quell’epoca nacque l’American Film Institute con l’intento di intervenire nella produzione di film sperimentali, ma dall’interno del mainstream. Io sono stato uno dei primi cineasti cui l’AFI chiese di lavorare. Mi diedero un po’ di soldi per scrivere la sceneggiatura, che scrissi con un amico, Lorenzo Mans. Alla fine, però, dopo due anni di ricerche, la produzione non trovò i soldi per realizzare il progetto, dicendomi che non avrebbe potuto finanziarmi e di fare quello che volevo. Dopo un anno ancora, credo, trovammo un produttore molto tradizionale, Sidney Glazier, che aveva prodotto il primo film di Mel Brooks. Credo che non sapesse cosa stavamo facendo. In questo modo siamo riusciti a fare il film, con pochi soldi, 280.000 dollari.

    In quanto tempo?

    Non ricordo esattamente, forse sei settimane.

    Dove?

    Nella California del Nord, in Oregon. Viaggiavamo magari decine di miglia per trovare il posto adatto anche per una sola inquadratura. Non eravamo molto organizzati.

    Tra David Holzman’s Diary, che è del 1967, e Glen and Randa, del 1971, c’è My Girlfriend’s Wedding, del 1969. Un film che sembra gemello di David Holzman’s Diary

    Dopo David Holzman’s Diary incontrai un nuovo distributore che voleva dare vita a un tipo di distribuzione alternativa. Gli affidai David Holzman’s Diary, che durava 74 minuti e che per la diffusione necessitava ancora di un po’ di materiale. Così mi chiese di girare un cortometraggio con 10.000 dollari. In quel periodo avevo conosciuto una ragazza di cui mi ero innamorato. Ero sposato e separato. Lei era inglese e voleva restare negli Stati Uniti. Così aveva organizzato un matrimonio con un ragazzo che non conosceva, che si occupava di politica e che era d’accordo a sposarla affinché potesse ottenere la Green Card. Mi sembrava il soggetto perfetto per fare un film con pochi soldi. Lo girammo in un giorno. Si tratta di un film molto semplice, una lunga intervista a questa ragazza, una persona molto interessante, che racconta la storia della sua vita. In seguito girammo il matrimonio. Ma il film finito durava circa sessanta minuti, era ben più lungo dei dieci minuti previsti…

    Quindi non fu possibile abbinarli…

    the wrong manNo. E il distributore fallì prima di distribuirli.

    Glen and Randa stilisticamente, a livello espressivo, sembra un film più classico, per una certa ricerca formale nelle inquadrature, nei paesaggi per esempio, rispetto ai precedenti e al successivo Pictures from Life’s Other Side, più spinti sul terreno di una ricerca visiva, a partire dall’uso della camera a spalla. Ci ha dunque colpito la collocazione di Glen and Randa tra film così estremi, nuovi linguisticamente, e ci chiedevamo come mai avesse scelto di girare Glen and Randa in una maniera, diciamo, così tradizionale.

    I film sono tutti tradizionali, ma di diverse tradizioni. È importante capire che David Holzman’s Diary è un tipo di critica di quel modo di filmare. Ho scelto quello stile perché parlavo di quello stile. Era lo stile necessario per quel film. Allo stesso modo, ho cercato di trovare un altro stile per Glen and Randa, che affrontava un altro soggetto. Ero abbastanza ben educato sul linguaggio cinematografico, mi ero confrontato con molti tipi di film e con molte maniere di esprimersi. Ogni film cerca il proprio stile per rappresentarsi.

    Un film molto particolare nella sua filmografia è Pictures from Life’s Other Side

    Voi avete visto Pictures? Dove?…

    Al Festival Cinema Giovani di Torino nell’anno in cui c’era la retrospettiva sul New American Cinema. Ci sembra esistano delle affinità tra quel film e Glen and Randa, due film quasi contemporanei. Entrambi mettono in scena un viaggio molto intimo attraverso un pezzo di America compiuto da una coppia e dove una donna viene filmata mentre sta partorendo.

    Sono molto contento che conosciate Pictures… In quel film-viaggio protagonisti siamo io, la mia compagna, che è la stessa ragazza di My Girlfriend’s Wedding e che mentre giravamo era incinta di nostro figlio, e il mio figliastro. Glen and Randa fu girato prima. Vi ho parlato dell’American Film Institute che sviluppò la sceneggiatura di quel film. Quando non riuscirono più a trovare i soldi per realizzarlo, mi dissero che se in seguito avessi voluto fare un piccolo film con 15.000 dollari avrei potuto chiederglieli. Così, quando terminai Glen and Randa chiesi loro quei soldi per fare Pictures from Life’s Other Side. Non ho pensato a una relazione tra i due film, ma avete ragione nel trovarla, ci sono scene quasi identiche, anche se non è stata una cosa cosciente.

    Vedendo David Holzman’s Diary si pensa al cinema di Jean-Luc Godard. E forse non è un caso che il suo primo film hollywoodiano, All’ultimo respiro, sia il remake di Fino all’ultimo respiro di Godard.

    Sì, in David Holzman’s Diary parliamo di Godard, e non è difficile capire perché. Negli anni Sessanta Godard era l’icona del nuovo cinema per tutti i cineasti, e per me particolarmente. Fino all’ultimo respiro è il film che mi fatto decidere di fare cinema. Non so cos’altro aggiungere, oltre che in quell’epoca Godard era la persona che cercava sempre, con nuove sfide, modi innovativi di esprimersi. E il linguaggio era l’aspetto che più mi interessava. Come dicevo, ogni film ha un suo stile. Per cui, i film che ho fatto per gli studios hanno uno stile più tradizionale proprio perché quelle storie avevano bisogno di essere filmate in un modo più tradizionale.

    Come mai ha sentito l’esigenza, in Pictures from Life’s Other Side, di raccontare la sua vita mettendosi in scena così radicalmente, spingendo fino in fondo la necessità di essere fisicamente presente e di filmare. Ci sembra una scelta morale, che spezza il filo invisibile che separa la realtà dalla finzione, come quando in David Holzman’s Diary la protagonista dice di non voler essere filmata mentre dorme

    Credo che negli anni Sessanta abbiamo avuto, tutti noi cineasti, un interesse per la verità, la vita di tutti i giorni, piuttosto che per quella vita che si vedeva sullo schermo, che veniva rappresentata nel cinema più convenzionale. La cosa che a me interessa è la mia propria vita.

    Filmare e riprendere la sua vita diventa quasi una magnifica ossessione. È bellissima la parte di David Holzman’s Diary, che già ricordavamo, in cui la ragazza lascia David perché non vuole essere filmata mentre dorme. Significava non voler essere ripresi nell’atto dell’incoscienza, nel riprendere ci deve essere comunque una forte coscienza.

    Grazie.

    Nel 1974 gira Hot Time, Sweet Sixteen, A Hard Day for Archie

    Sono tre titoli diversi per uno stesso film (uscito in Italia con il titolo Nell’eccitante attesa dell’accoppiamento armonico, nda). È un film sulla linea tra il pornografico e l’erotico, con una storia divertente. In quel periodo stavo a New York ed ero disperato perché non riuscivo a trovare soldi per fare film, lavoravo come taxista. Un giorno incontrai una persona con la quale avevo frequentato l’università. Lui e suo padre producevano film pornografici, mi disse che stavano preparando un nuovo film e che avrei potuto dirigerlo. Accettai. C’erano molte regole da rispettare: avrei dovuto scrivere, dirigere e montare il film per 5.000 dollari in due settimane. Doveva essere una commedia sulla sessualità dei teen-ager, ogni scena doveva avere persone nude o parlare di sesso, ma i personaggi non dovevano mai farlo, altrimenti si sarebbe caduti nel pornografico, quindi non c’erano scene hard. Va ricordato che la situazione legale era molto strana: in quegli anni in America si potevano fare legalmente dei film porno, ma la Corte Suprema aveva preso una decisione in base alla quale ogni singola città great balls of firepoteva decidere cosa era pornografico e cosa no, non esisteva uno standard al riguardo, quindi i produttori di quel genere di film erano in pericolo, potevano finire in prigione perché nessuno era in grado di definire con chiarezza quella situazione. Così, tutti erano spaventati nel fare film hard-core e prendevano la decisione di realizzare film meno espliciti sessualmente. Ed è quello che abbiamo fatto. Girai il film e terminata la mia partecipazione me ne andai. Ma quando uscì nelle sale la Corte Suprema aveva deciso di cambiare la legge sulla pornografia e di ammettere l’hard-core. Avevamo dunque un film che non era hard-core e che nessuno voleva vedere. La produzione chiamò un altro regista per girare scene hard da inserire nel mio film, che avevo girato in 35mm, a colori e con attori giovani, freschi, innocenti. Invece gli inserti hard erano in 16mm, in bianconero e con attori junkies e pieni di tatuaggi. Era una cosa terribile. Ma quel regista guadagnò molti soldi!

    Se il produttore glie lo avesse permesso, in una prima fase, avrebbe girato il film con scene hard o no?

    Sì, con piacere.

    Glie lo chiediamo perché è interessante il lavoro che lei fa sul corpo nudo, come in Pictures from Life’s Other Side, in Glen and Randa

    È vero, mi piace, mi interessa la sessualità nel cinema, per cui nei miei film cerco sempre di creare delle situazioni di questo genere.

    Però in quei film c’è sempre un rapporto con il corpo molto pulito, non in senso morale, ma nel senso di come presentare e rappresentare il corpo. Invece, a partire da All’ultimo respiro, e in film come Uncovered o The Wrong Man, quelli di una “seconda fase” della sua filmografia, ci sembra ci sia una forte componente di desiderio nel filmare i corpi di attori famosi: Richard Gere in All’ultimo respiro, Rosanna Arquette in The wrong Man, Dennis Quaid in Great Balls of Fire e The Big Easy… Mentre i suoi primi film sembravano quasi dei documentari su dei corpi…

    Capisco la divisione della mia opera in due fasi, ma voi non sapete quello che non ho fatto. Questo vuol dire che alle due cosiddette fasi ne esiste un’altra. Io ho scritto molto, ma non sempre sono riuscito a trovare i soldi per girare le mie sceneggiature. Tra il 1975 e il 1976 ho scritto una sceneggiatura molto forte, il cui soggetto era la sessualità. Era una cosa che in quel momento avrei davvero voluto fare, ma nessuno voleva darmi i soldi per realizzarla. Quello della sessualità è un elemento che attraversa tutta la mia filmografia, dall’inizio a oggi. Ma quello che sono riuscito a fare non è tutto quello che avrei voluto fare. Quello che ho fatto nella “seconda fase” è solo quello che mi hanno permesso di fare. Vuol dire che se avessi potuto seguire il mio vero interesse nei miei film avrei messo cose sessualmente più forti, più profonde, non solo legate alla visione dei corpi. Voi citavate Rosanna Arquette, mi interessava particolarmente la sessualità del suo personaggio, anche se non è una sceneggiatura che avevo scritto io.

    Inoltre, in tutti questi film c’è un rapporto molto fisico non solo con i corpi ma anche con le città, i luoghi…

    Sì, è vero.

    Tra il primo e il secondo periodo della sua carriera c’è un buco di quasi dieci anni. Che cosa ha fatto?

    Sono stato disoccupato.

    Ma come succede che uno fa dei film indipendenti, poi rimane senza lavorare per dieci anni e quindi ricomincia a lavorare a Hollywood con Richard Gere?

    Non vi ho detto che negli anni Settanta sono andato a Hollywood per fare un film che alla fine non sono riuscito a fare, trascorrendo due anni per prepararlo. Non so che dire, ho lavorato in tutto quel periodo, ma per me erano anni difficili per fare cinema. Stavo vivendo la mia vita hippy e al tempo stesso stavo sempre preparando, scrivendo, cercando soldi per fare film. Nel ’75 sono andato a Hollywood per cercare lavoro. Credo che abbiamo scritto la nostra versione di All’ultimo respiro nel ’76. Poi, ho impiegato cinque anni per trovare i soldi per farlo.

    E come ci è riuscito?

    È una storia lunga, come tutte le storie. Un produttore che si chiamava Martin Erlichman si interessò all’idea di fare il remake del film di Godard, anche se non l’aveva mai visto. Sapeva che era un film famoso, ma completamente sconosciuto in America. Trovò i soldi per la sceneggiatura, che scrissi insieme al mio amico L.M. Kit Karson. Inizialmente, la scelta per il ruolo di protagonista cadde su Robert De Niro, la Universal non voleva un altro attore. Fu mandata la sceneggiatura a De Niro, e lui disse che era interessato, ma non poteva decidere. Stava girando Toro scatenato e ogni due settimane lo chiamavo. Lui rispondeva sempre: “Non sono sicuro, richiamami tra due the big easysettimane”. Ho fatto così per quattro mesi, e sempre lui continuava a non dare una risposta chiara. Allora ho chiamato Scorsese per chiedergli di parlare con De Niro e sapere se accettava o meno il ruolo. Non mi importava se diceva sì o no, avevo bisogno di una risposta. E lui disse no. A quel punto la Universal non si interessò più al film. Non ricordo tutta la storia in ordine, ma a un certo punto un altro studio si fece avanti. La sceneggiatura fu mandata a John Travolta che subito mostrò interesse ma poi, dopo un colloquio con me, si tirò indietro. Lo stesso accadde con Al Pacino. Erano grandi star e l’idea di fare un film con un regista sconosciuto faceva loro paura. Finalmente, il mio agente mi disse: “Nessuno vuole fare questo film con te come regista, ma a tutti piace la sceneggiatura. Se tu lo lasci fare a un altro regista, la prossima volta tu potrai dirigere un film”. Accettai e la regia fu affidata all’inglese Frank Roddam, il regista di Quadrophenia, che era amico di Richard Gere. Solo che, durante la preparazione, Frank se ne andò perché un suo progetto aveva trovato modo di essere realizzato. Bisognava cercare un altro nome e Gere fece una lista di registi che avrebbe accettato. E io non c’ero. Spuntò il nome di Michael Mann, un altro amico di Richard. Mann riscrisse completamente la sceneggiatura e poi se ne andò per realizzare un altro suo progetto. In quel momento la produzione iniziò ad avere dei problemi perché il film andava fatto entro un determinato tempo, avendo Richard Gere altri impegni. C’era tutto: la sceneggiatura, la star, i soldi, mancava il regista e tutti quelli nella lista di Gere non potevano o non volevano. Così, il capo della casa di produzione disse che avrebbe suggerito me. Richard aveva visto David Holzman’s Diary e disse: “Conosco questo regista e credo che sia un buon regista, ma che non sappia fare un film con una star”. E non volle incontrarmi. Infine, quando tutti i nomi rifiutarono, chiamai Paul Schrader, che conoscevo e sapevo che era un amico di Richard, dicendogli di dire a Richard che ero un bravo ragazzo… Finalmente Richard acconsentì a incontrarmi, andai a New York e passai tre giorni con lui. Era freddo, riservato, fino a quando parlai di Jerry Lee Lewis mostrandogli una sua foto. Tutto cambiò… anche se non sciolse ancora tutte le riserve nei miei confronti. Dopo due o tre settimane e un ulteriore incontro molto dogmatico con il presidente della Orion Pictures, accettò che io dirigessi il film.

    E si tornò alla sceneggiatura originale?

    Sì.

    Ci interessa sapere come ha costruito la sceneggiatura: partendo da Godard? rivedendo il film? giocando sulle differenze di epoca e di personaggi?

    Ho trovato una copia della sceneggiatura del film di Godard pubblicata da una rivista francese, L’Avant-Scène, l’ho tradotta e abbiamo semplicemente deciso di raccontare la stessa storia ma in una maniera molto diversa, ambientandola a Los Angeles. Sembrava stupido fare un film con lo stesso linguaggio che Godard aveva inventato. Facevamo un film hollywoodiano e dovevamo farlo in uno stile hollywoodiano, venendo da un’altra tradizione. Per me Los Angeles era una città nuova. Vengo da New York e Los Angeles era un luogo molto strano, così il processo di scrittura divenne per me anche un modo di scoprire la città.

    Perché Jerry Lee Lewis?

    Perché in un certo modo rappresentava alcune delle stesse cose che Bogart rappresentava per Belmondo. È un’icona della cultura popolare, di chi stava ai margini della vita normale, un eroe-bandito. E poi perché lo amavo molto…

    Come mai non ha proposto a Richard Gere di fare Great Balls of Fire?

    È stato Dennis Quaid a propormi di farlo. Sette anni prima mi ero interessato alla storia di Jerry Lee Lewis e avevo cercato di farmi finanziare un film sulla sua vita. Ma a nessuno piaceva l’idea. Non so com’è andata, ma sette anni dopo un produttore ha proposto il film a Dennis Quaid che mi ha coinvolto nel progetto.

    Prima lei parlava di cultura popolare. I fumetti hanno un ruolo importante nel suo cinema. In Glen and Randa si fa riferimento a Wonder Woman. In All’ultimo respiro a Silver Surfer. Ha dunque un interesse particolare per la cultura dei fumetti?

    Sì, è un tipo di linguaggio molto diretto che si può usare nel cinema in modo metaforico. Uno dei progetti che avrei voluto realizzare e che non sono mai riuscito a concludere era basato sul fumetto di Frank Miller Elektra: Assassin. È una storia favolosa. Miller è colui che ha inventato il nuovo Batman, Darkman, e il personaggio di Electra, una donna traumatizzata da giovane, che non parla, perché il padre è stato ucciso da una gang di Ninja. E lei diventa una Ninja assassina. È una storia bellissima, ma costava molto realizzarla e non ce l’ho glen and randafatta.

    Si è integrato a Hollywood o si sente un alieno?

    Sono un alieno. Volevo integrarmi, ho provato…

    Cosa le ha reso impossibile integrarsi? Cosa le dà più fastidio di Hollywood?

    Io credo… Non so perché. Ma forse è semplice: non ho mai fatto film di successo, che hanno incassato. Nel momento in cui farò hits sarò integrato…

    Questo per quanto riguarda gli altri. Ma da parte sua?

    Certo, mi piacerebbe avere un film di successo, ma molte volte mi hanno offerto film che non mi interessavano. In questi ultimi anni mi considero un regista in prestito, nel senso che faccio film non originati da me, ideati da altri. Ma anche se non posso fare esattamente quello che voglio, non faccio mai film che non voglio fare. Sono molto pochi i progetti che mi piacciono e che piacciono anche alle persone che li dovrebbero finanziare. Tutto quello che ho fatto sono contento di averlo fatto, anche se recentemente non ho fatto delle cose molto personali.

    Non ritiene che The Wrong Man sia molto personale?

    The Wrong Man è il progetto che ho cambiato meno, nel senso che la sceneggiatura era già scritta, tutto era stato organizzato prima del mio intervento per cui non ho quasi modificato nulla, tranne qualcosa di azione alla fine. Ho amato molto la sceneggiatura e ho cercato di realizzarla nel modo migliore. Ma non è un film molto personale, anche se mi sono identificato con i personaggi e con le situazioni. Però non li ho creati io e dunque non sento davvero una relazione personale con il film.

    Eppure, anche se non c’è un soggetto, una sceneggiatura davvero personale, ci è sembrato che il suo modo di lavorare, di intervenire su una base già pre-esistente, preparata, fosse molto personale. The Wrong Man è un film, come altri suoi, che mette in scena un viaggio impossibile. Spesso nel suo cinema i personaggi si mettono in viaggio e poi rimangono come in surplace in attesa di compiere un gesto che non riusciranno del tutto a realizzare. Una fuga cercata, ma quasi sempre impossibile da portare a termine. In questo senso i finali dei suoi film ci sembrano particolarmente interessanti e significativi. In Glen and Randa i personaggi spariscono in mezzo al mare. In The Wrong Man la fuga di John Lithgow e Rosanna Arquette e dell’uomo che hanno coinvolto nei loro giochi viene negata in una stazione ferroviaria dove c’è la sparatoria finale. In The Big Easy, dopo tutto l’intreccio poliziesco, Dennis Quaid e Ellen Barkin spariscono dall’inquadratura ballando. In Uncovered mentre la gente segue la vendita del quadro all’asta i due protagonisti, la ragazza e il giocatore di scacchi, sono in fondo alla sala, come già da un’altra parte… Lo stesso finale di All’ultimo respiro, anche se in quel caso essendo un remake c’è un preciso riferimento al testo originale… Ci sembrano tutti finali che rappresentano la negazione di una fuga, mentre il modo di filmarli (a parte in All’ultimo respiro, che si chiude su un fermo immagine) se da una parte nega quella fuga dall’altra disegna dei finali visivamente aperti, lasciando che l’inquadratura finale continui fino alla fine dei titoli di coda, in un margine di sospensione del testo… Le cose finiscono per i personaggi, ma non per i film, che continuano oltre la fine delle storie. È una scelta formale che si ripete, precisa, in opere molto diverse e che quindi ci pare teorica, quasi una sua “firma”.

    Le cose non finiscono con la fine dei film, è vero… È interessante quello che dite e sono sicuro che avete ragione, ma mentre facevo i film non ho pensato a queste interpretazioni o a una simile ossessione presente nelle mie opere nel corso degli anni. Noto queste analogie ora che ne parlate, ma non le ho fatte con intenzione. D’altronde, si dice che un regista fa sempre lo stesso film, racconta sempre la stessa storia!…

    Uncovered inizialmente si chiamava The Flemish Board

    È la traduzione inglese del titolo di un romanzo spagnolo molto famoso in Spagna (La tavola fiamminga di Arturo Pérez-Reverte, nda). Ma è molto brutta, per cui abbiamo cambiato il titolo.

    Rispetto ai film precedenti, Uncovered non ha attori famosi. Come è nato il progetto del film?

    Un giovane produttore colombiano che lavorava in Spagna aveva comprato i diritti del romanzo e mi contattò per realizzarlo. Non so perché accettai, credo perché volevo fare un film europeo in inglese per un mercato più ampio di quello che avrebbe avuto un film spagnolo. Lessi il romanzo e lo trovai interessante, anche se non pensavo davvero di farne un film perché non lo ritenevo molto commerciale e perché il produttore non mi sembrava uno che avrebbe poi potuto trovare i soldi per finanziarlo. Non avevo molta fiducia nel futuro del progetto, che però mi intrigava. Invece, lentamente prese forma e andammo a Londra per scegliere un attore.

    Chi sono i due attori?

    Sono sconosciuti e questo causò problemi per cercare i finanziamenti. La compagnia francese voleva un’attrice americana famosa, così la sceneggiatura fu mandata a Bridget Fonda, Winona Ryder e Uma Thurman. Ma tutte e tre risposero negativamente, e le altre attrici interessate non mi piacevano, non pensavo che potevano essere adatte a quel ruolo. Decisi dunque di indirizzarmi verso attori meno noti, la produzione accettò quel cambiamento, ma a quel punto i soldi a disposizione diminuirono. E forse è stato un errore, perché senza attori famosi adesso nessuno vuole comprare un film. Forse in Italia non importa, ma da noi un certo tipo di film fatto in Europa in inglese con un attore francese, uno tedesco, uno americano, uno inglese rappresenta un problema per il linguaggio perché tutti parlano con accenti diversi. Quando Novecento è uscito negli Stati Uniti il mélange di accenti risultava ridicolo. Dopo, il film fu fatto uscire nella versione italiana con i sottotitoli in inglese ed ebbe un grande successo. Io non volevo fare un film così, ma tutto con attori inglesi e sono contento degli attori che ho scelto. Ma dal punto di vista commerciale è stata una scelta sbagliata.

    Nel 1986 ha girato The Once and Future King, episodio della serie tv The Twilight Zone.

    È una storia fantastica a cui non ho potuto resistere. Un film di mezz’ora con protagonista un uomo che fa l’imitazione di Elvis Presley, si veste come lui, canta come lui. Dopo un incidente con l’auto, si sveglia in una strada sconosciuta, in mezzo a un campo, e quando giunge un’altra macchina fa l’autostop e sale su di essa. La persona al volante è il vero Elvis, prima che incida il suo disco d’esordio. I due diventano amici e Elvis, impressionato da quell’imitatore che sa molte cose su di lui, comincia a credere che l’uomo sia il fratello perduto. Quando sta per incidere il primo disco e fare una cosa sbagliata, l’imitatore lo corregge e gli canta la sua prima canzone, That’s All Right. Elvis è scandalizzato, dice: “Questa è la musica dei neri, cosa dirò a mia madre, non posso farlo”. Così i due cominciano a discutere, anche fisicamente. Lottano, il vero Elvis muore e l’altro prende il suo posto. Nel finale, alla fine della sua vita a Las Vegas, il protagonista racconta la sua storia a un giovane fan e si scopre che in realtà lui è il fratello. È una storia meravigliosa.

    uncoveredPoi, gira tre episodi della serie The Wonder Years

    Sono meno interessanti. Si tratta di una celebre serie televisiva dove un ragazzo racconta in prima persona la sua storia e quella della sua famiglia negli anni Sessanta. Bisogna sapere che nella televisione americana il regista non è molto importante, lo è il produttore. E in questo caso il produttore, un tipo molto forte con cui la maggior parte dei registi non voleva lavorare, e neanch’io, aveva anche scritto le storie. Ma nel momento in cui mi hanno contattato io non lavoravo e mi sembrò interessante accettare. Il primo giorno, mentre stavo sul set organizzando un’inquadratura, l’assistente regista mi si avvicinò e disse che a Bob, il produttore, quell’inquadratura non piaceva. Così scoprii che dal suo ufficio attraverso un monitor guardava quello che stavo girando, avrebbe voluto essere lui il regista ma non ne era in grado. Reagii, dicendo che non volevo lavorare se dovevo fare quello che lui voleva. Gli parlai e mi lasciò più libertà.

    Ha mai girato dei video musicali?

    No, non mi hanno mai chiesto di farli. Potrei dire che è una posizione filosofica, ma non è vero, semplicemente non me li hanno mai chiesti.

    Ma li farebbe?

    Non so… Condivido lo stile dei clip, sono entusiasta della musica. Nei miei film la musica ha un ruolo importante. Qualche volta penso alla musica quando creiamo le immagini, e in sala di montaggio uso musica, sempre.

    La colonna sonora di The Big Easy l’ha scelta lei?

    Sì.

    Perché le piace quel tipo di musica o perché era giusta in quel contesto?

    In ogni film che faccio spendo grandi energie per la musica, ma, tranne che per The Wrong Man con i Los Lobos, non ho mai avuto una buona relazione con i compositori, non sono mai contento degli score che compongono. Per The Big Easy abbiamo rifiutato la musica tre volte e poi l’abbiamo sostituita con musica che abbiamo scelto noi perché era più interessante.

    Oltre a quella che si sente nei suoi film, che musica ascolta?

    Quella che si sente nei film che ho fatto. Ho gusti molto eclettici, ascolto molto la musica nera, quella africana, attualmente quella del Madagascar, è fantastica, quando la senti la riconosci subito, ma allo stesso tempo è completamente strana. Un effetto incredibile.

    Avevamo intuito questa sua passione per la musica nera, eppure nei suoi film i personaggi sono bianchissimi… E non a caso ha fatto un film su Jerry Lee Lewis e non su un musicista nero… Come mai?

    Non si può fare un film sui neri. Non si può e se si potesse sarebbe difficile per me perché non sono nero e la gente nera sarebbe molto arrabbiata. Però ho sempre cercato di fare un film in Africa perché l’Africa mi appassiona molto.

    Conosce il cinema africano?

    Molto poco. Ho visto qualche film di Ousmane Sembene, che adoro, è un grande regista. E conosco il cinema di Souleymane Cissé. Ma a Los Angeles, dove vivo da diciotto anni, non si vede niente di cinema africano.

    Cosa pensa di Spike Lee?

    Mi sono piaciuti Lola Darling e Fa’ la cosa giusta. Credo che abbia talento e che i suoi primi film rivelino un interesse nei confronti dei personaggi, poi è diventato troppo politico con film schematici che non mi interessano.

    Spesso i suoi film si inscrivono nel thriller, nel noir, nel poliziesco…

    Amo questi generi e ho scoperto che so farli bene. È anche vero che è più facile trovare soldi facendo film simili… E poi credo che ci sia sempre bisogno della morte in un film, non so esattamente perché, forse perché per capire la vita bisogna avere la morte con cui compararla…

    Tra Great Balls of Fire e The Wrong Man dirige il film per la televisione Blood Ties.

    Si tratta dell’episodio pilota di una serie, che poi non fu fatta, prodotta dai produttori di Dynasty. Si fanno i pilot per valutare il gradimento degli spettatori. Ci sono molti pilot e poche serie. A me Blood Ties piace molto, è la storia, divertente, di una famiglia, tipo quella del Padrino, ma si tratta di vampiri che ai giorni nostri si trasferiscono dalla Romania negli Stati Uniti. Gli anziani vogliono mantenere le tradizioni del paese lontano, mentre i giovani vogliono integrarsi nella società californiana.

    Ha scritto anche sceneggiature dirette da altri registi?

    Sì, alcuni anni fa ho scritto la sceneggiatura per Lady Beware (All’improvviso uno sconosciuto, 1987, di Karen Arthur, nda), ma non era un bel film. Ho lavorato una volta a quella sceneggiatura, ma sono sicuro che in seguito altri l’hanno riscritta. Il film fu girato tre o quattro anni dopo il mio intervento.

    Prima ha detto che gli ultimi film li sente meno suoi perché non li ha scritti. Non è questa una concezione europea del cinema e non americana?

    Sì.

    Si sente dunque più europeo?

    Il mio interesse per il cinema è nato con il cinema europeo. Dopo aver scoperto il cinema italiano, francese, svedese, ho scoperto il cinema americano. Ho scoperto Howard Hawks dopo aver scoperto Jean-Luc Godard. Mi trovo sospeso tra questi due mondi. Mi sento molto americano nella sensibilità, ma il mio modo di lavorare è più europeo.

    Quali sono le sue origini?

    Irlandesi e russe. Mia madre è ebrea russa, mio padre cattolico irlandese.

    Si sente un autore?

    Sì, cerco di mettere me stesso in qualsiasi cosa che faccio. Chiaramente preferisco fare le cose più personali rispetto a quelle su commissione, ma sono abbastanza contento di tutto quello che ho fatto. Non mi vergogno di nulla. Non faccio una cosa per soldi e un’altra per l’anima. Tutto quello che faccio lo faccio con tutta l’intensità che ho. Ma è chiaro che se avessi potuto fare quello che volevo avrei fatto cose più personali.

    Però nei suoi film mantiene sempre uno sguardo molto personale.

    Sì, ed è per questo che non lavoro più con gli studios.

    Quando farà un western?

    Ho passato due anni della mia vita a preparare un western. Era il 1972, dopo Glen and Randa. Fui invitato a Hollywood dalla BBS, che aveva fatto Easy Rider e Cinque pezzi facili e che voleva scoprire un nuovo talento… Così, io e l’amico con cui avevo scritto Glen and Randa scrivemmo una storia sui Mountain Men, un tipo di free western, prima del western e dei cowboy, ambientata nell’Ovest degli Stati Uniti, nella stessa epoca di Corvo Rosso non avrai il mio scalpo. La nostra era una storia molto diversa, una buona sceneggiatura che non si girerà mai. Mi piacerebbe molto fare questo film, ma è impossibile, è sempre una questione di diritti. Ho scritto la sceneggiatura per la BBS, una divisione della Columbia Pictures, e quando il film non è stato fatto la Columbia è diventata proprietaria dei diritti. Molte volte ho chiesto di comprarli, ma loro non volevano. Normalmente uno Studio non vende i diritti di un film, anche se non lo vuole fare, per impedire che altri lo realizzino e abbiano successo. Il mio miglior lavoro non è sullo schermo…

    Ci piacerebbe intitolare l’intervista “L’ultimo degli indipendenti”…

    Va bene. Non è vero, ma va bene.

    (Inedita)

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