Joan Baez I Am a Noise, di Karen O’Connor, Miri Navasky e Maeve O’Boyle

Un documentario che cerca la componente rumorosa della carriera di Joan Baez, non per affrontarla nella sua ambiguità, ma per pacificarla. Panorama

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Joan Baez è a Parigi. Dalla finestra aperta entrano delle percussioni, a smuovere l’aria del mattino. Arrivata nella piazza dove un gruppo di ragazze suona dei tamburi, si lascia trasportare e si mette a ballare. Scalza, come quando aveva poco più di vent’anni e un po’, a sua detta, si credeva la Vergine Maria. Ed era facile, negli ’60 e ’70 concordare con questa visione: le sue canzoni erano inni di protesta non violenta dal furore angelico. La si poteva vedere a fianco di Martin Luther King, di David Harris, di Pete Seeger, mentre si batteva a favore dell’uguaglianza e contro la guerra in Vietnam. Non c’è dubbio che Joan Baez sia stata una bussola morale per un’intera generazione.

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Eppure, sotto tutto questo si agita qualcosa di oscuro. Leggenda narra che Dark Star dei Grateful Dead sia dedicata a lei.I am a noise”, sono un rumore, scriveva la piccola Joanie in un tema scolastico. Il documentario presentato nella sezione Panorama alla 73ª Berlinale cerca di scavare proprio in questo lato sotterraneo della cantautrice. Riemergono, così, i problemi mentali, la dipendenza da quaalude, i traumi familiari. Come se avesse dovuto assorbire lei stessa quel liquido nero e caustico per preservare la solidità delle sue canzoni. E da quella pozza oscura formatasi dentro di lei sono cominciate a uscire delle voci, sempre più forti e numerose, con le quali combatte tutt’ora.

Ciò che rende problematico il documentario di O’Connor-Navasky-O’Boyle è la pulizia con la quale viene affrontata la storia di Joan Baez. Non siamo di fronte a un Marx può aspettare, in cui il trauma rimane in qualche modo irrisolto e irrisolvibile, rinnovando la sua ambiguità a seconda del punto di vista. Come fossimo in un teatro rinascimentale, la prospettiva è costruita in funzione dello sguardo del principe, o della principessa in questo caso. La mancanza di punti di vista alternativi inserisce il discorso su dei binari che non ammettono deviazioni.

Le asperità vengono così spianate. Il cambio netto della sua carriera negli anni ’90, con concerti dimenticati a causa delle droghe e alter ego che somigliano sempre più a personalità multiple, viene ricondotto a un trauma familiare represso che sa di rifugio narrativo. Ad esempio, la perdita quasi completa di efficacia della non-violenza, oggi utilizzata principalmente come strumento per immobilizzare proteste anche sacrosante, non viene mai affrontata. Così, Joan Baez I Am A Noise sembra, più che voler raccontare quell’inquietante rumore di fondo, sembra provare in tutti i modi a reinserirlo nella musica, pacificato. Non il volo irregolare di una colomba, ma il chirurgico volo di un drone.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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