L’uomo del labirinto, di Donato Carrisi

Alla sua seconda regia Donato Carrisi ingigantisce le geometrie del suo cinema arrivando a un’architettura filmica dove a dominare ancora una volta è la funzionalità della struttura.

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Ne L’uomo del labirinto di Donato Carrisi è impossibile perdere la propria ragione. Puoi imboccare qualche vicolo cieco, spinto da trompe-l’œil narrativi od estetici, tornare sui tuoi passi e ripartire da capo ma la strada per l’uscita è segnata sin dal principio con una riga rossa come quella che Samantha vede stampata sul quadro di un muro quando prova a scappare dal dottor Greene. Il film del giallista italiano più letto al mondo dichiara sin da subito di voler attirare lo spettatore dentro il suo gioco e come per gran parte della letteratura di genere si dispiega facendo stillicidio delle sue regole. Che spesso però si auto-confutano da sole, facendo sì che la seguente contraddica la precedente in base alla volontà dell’autore di colorare con effetti speciali la sua opera.

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E quindi è inutile cercare ne L’uomo del labirinto di sfidare l’autore sul terreno della risoluzione spettatoriale, per piuttosto lasciarsi andare al piacere ludico della visione sull’indagine della mente umana, il più oscuro dei labirinti nel quale addentrarsi. Proprio su questo aspetto il film mostra i limiti di un meccanicismo psicologico piuttosto rigido dato che ad ogni trauma/dolore viene assegnato un correlato oggettivo.
Del protagonista Bruno Genko apprendiamo da subito la fallacia: malato terminale di cuore e preda di visioni, solo l’occhio del più distratto degli spettatori può pensare di fidarsi del suo sguardo. Anche di Samantha, liberatasi misteriosamente da una prigionia durata quindici anni e per di più sotto effetto delle care e vecchie sostanze psicotrope, non c’è da fidarsi. Le sue labbra arse, continuamente riprese, sembrerebbero assetate delle verità che il buon profiler interpretato da Dustin Hoffman si diverte quasi a somministrarle poco a poco. Qui Carrisi, come già ne La ragazza nella nebbia, dimostra di gestire i dialoghi secondo un uso canonico del campo/controcampo e delle musiche, a sottolineare i passaggi importanti per lo svolgimento della vicenda. Ma questo uso piano della fabula viene bilanciato, almeno nelle intenzioni, da una resa visiva molto più pronunciata che in passato. L’indeterminatezza di luogo e tempo è suggerita attraverso inquadrature sulla metropoli sci-fi e su interni cromaticamente saturi, da neo-noir futuristico.

La fotografia aumenta questo clima di irrealtà mostrando continuamente fuoco e luci calde dato che “il calore è il primo segno dell’Apocalisse”. Una storia quindi febbricitante, sudata e che deve tanto all’immaginario statunitense (al bar dei redneck dove Genko interroga il ragazzo con la faccia ustionata mancano solo gli Hell’s Angels). E che al contempo non rinuncia alla connotazione italica del marchiare a fuoco i passati dei suoi cattivi con la nefasta influenza di santa Madre Chiesa. Come da tradizione del thriller degli ultimi anni l’agnizione del pre-finale, che fino a qualche anno fa avrebbe chiuso il film, è solo la preparazione al doppio twist degli ultimi minuti che capovolge il senso di ciò che si era visto fin lì.
L’uomo del labirinto allora, per sfuggire al peccato originale del poliziesco di non venir mai più ri-attraversato (come il labirinto, appunto) una volta dipanato l’intreccio, giunge all’esatto opposto e quello cioè dell’obbligo della seconda visione. Che mai come in questo caso, però, risulta demistificante. Perché i conigli con gli occhi rosso rubino, le prostitute dal cuore d’oro, gli investigatori riottosi verso la polizia mostrano la loro funzione architettonica e corrono il pericolo di far perdere all’edificio il senso di smarrimento, mentre quei pochi elementi realmente disturbanti come il fumetto speculare che mostra immagini blasfeme e la figura del sadico consolatore rischiano di diventare oggetti d’arredo.

 

Regia: Donato Carrisi
Interpreti: Toni Servillo, Dustin Hoffman, Valentina Bellè, Luis Gnecco, Vinicio Marchioni, Stefano Rossi Giordani, Riccardo Cicogna, Caterina Shulha
Distribuzione: Medusa
Durata: 130′
Origine: Italia, 2019

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.5 (2 voti)
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