NAPOLIFILMFESTIVAL 10 – "Restul e tacere (The Rest is Silence)" di Nae Caranfil

The rest is silenceIl regista rumeno, al suo quinto lungometraggio, racconta il cinema di ieri e di oggi. Si lancia, tra il comico e il drammatico, nella nostalgica ricostruzione dell’epoca del muto. ma si interroga anche sulle questioni teoriche. E tra la maglie della pacatezza formale del film, si affaccia la visione di un cinema che si dibatte nell’ossessione di voler esser sempre altro, una realtà mai trattenuta o una storia sempre tradita

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The rest is silenceCosa chiedere al cinema? Quando la vecchia attrice, gloria del teatro rumeno, chiama Grig “Junior”, per chiedergli di comparire nel suo film, il ragazzo non crede ai suoi occhi orecchie. Poco più tardi, sul punto di girare la scena delle madri che piangono sotto la pioggia per la partenza dei loro figli soldati, regista, operatore e attori non credono ai loro occhi. Il rullo della cinepresa non funziona, ma anche se fosse partito, non avrebbe potuto catturare il lacerante urlo della madre/attrice, condannata a esser per sempre muta. Non credere agli occhi…c’è qualcuno qui che crede davvero nel cinema? Forse tutti, chi più chi meno, fraintendono, o forse, più semplicemente, proiettano su quella pellicola infiammabile i loro personali desideri dì immortalità, gloria, fama, danaro. Aristizza sogna l’eternità silenziosa dell’ultima performance, non rendendosi conto di come il cinema, al pari della sua vecchiaia, provi la struggente nostalgia del corpo. Carlo I cerca l’epica celebrazione di una regalità che ha sempre bisogno di affermarsi per esistere. Emilia vuole il successo anche a costo di farsi metter al rogo. E noi cosa vogliamo vedere, qui o altrove? Nae Caranfil, regista rumeno al suo quinto lungometraggio, prova a raccontare con Restul e tacere il cinema di ieri e di oggi. Si lancia, tra il comico e il drammatico, nella riscostruzione di Bucarest del1911, di un’epoca lontana anni luce, quella della passione pioneristica dei primi registi, contro lo scetticismo delle classi colte e l’aperta ostilità del mondo teatrale, un tempo di sale sporche e fumose, troppo piene di straccioni e di rumori, tra mezzi tecnici da inventare e la mancanza di consapevolezza teorica, tra l’entusiasmo artistico dei giovani e l’affarismo arrembante dei primi produttori internazionali. Si affacciano le domande di sempre. Il regista chi è, cosa fa? “Io comando sire”, risponde Junior al sovrano in un moto d’orgoglio. Ma tra le maglie della pacatezza formale di Nae Caranfil, a volte anche troppo dispersiva nella sua lunghezza e didascalica nella sua chiarezza, si affaccia soprattutto la visione di un “vecchio cinema inferno”, che si dibatte nell’ossessione di voler essere sempre altro, realtà mai trattenuta o storia sempre tradita. I vecchi generali rivogliono la battaglia d’indipendenza, ma non possono dettar i movimenti ai turchi, metterli in scena, perché, che cavolo, per conoscere le strategie turche occorre rivolgersi ai turchi. Ragionamento che non fa una piega. Ma la ragione genera mostri. Il film ha, invece, qualcosa di folle, come due occhi. Quello azzurro come il cielo di Grig, che nel riflesso degli occhiali, osserva la sua visione farsi materia. Quello nero come la morte di Leon, che vuole riottenere la polvere d’argento della pellicola, brama un precipitato concreto dell’immaterialità delle apparizioni. Quale occhio scegliere? Uno dei due, tanto desidereremo sempre l’altro. Follia o ragione? Sull’ultima battuta di Amleto il buio invade sullo schermo. Non è vero che il film sopravvive. Sopravviviamo sempre noi, immobili o agitati, comunque cambiati. Il resto è silenzio.

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