#PesaroFF59 – “Creare costellazioni”, intervista con Hannes Verhoustraete

Abbiamo incontrato l’autore del film vincitore del #PesaroFF59, Hannes Verhoustraete. Una conversazione sul potere delle immagini, capaci di essere armi devastanti, ma anche costellazioni salvifiche

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Uno schermo bianco. Una mano posa un’immagine in controluce, davanti all’obiettivo. La rimuove. Il ciclo si ripete. Una dopo l’altra, si susseguono immagini provenienti dal Congo occupato dal Belgio. Uomini con abiti tribali in posa davanti a una capanna, che con un colpo di mano ci appaiono in giacca e cravatta, seduti magari a un tavolo attorniati da alcune suore. Altro colpo di mano e appare un giovane uomo biondo che posa accanto alla carcassa di un leopardo. I colori sono accesi, dipinti a mano sul fotogramma. Annegano invece nel bianco e nero i corpi deformati dalla schiavitù, che prima ancora di essere colonizzati erano proprietà privata del re Leopoldo II. Immagini oscene, affascinanti, stratificate. Sprofondiamo nel flusso visivo mentre una voce ci tiene a galla. La storia coloniale del Belgio viene ripercorsa attraverso la lente di una delle sue armi fondamentali per la conquista: la lanterna magica. Broken View, vincitore della 59ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, smonta il meccanismo, lo esplora attraverso continui interrogativi sul potere delle immagini. Ne abbiamo parlato con Hannes Verhoustraete, autore del film nonché insegnante e ricercatore all’accademia di belle arti di Gand.

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Come è nato il progetto di Broken View e come si sono collegati lo studio della lanterna magica e le immagini coloniali?

Tutto è nato da un mio collega e mio vecchio maestro, con un progetto che si sviluppa in diversi modi. Inizialmente, doveva essere un cortometraggio, ma l’idea si è poi espansa. Ci sono stati diversi approcci, non solo dal punto di vista degli studi coloniali. C’era la parte legata all’intrattenimento e alla fantasmagoria, il punto di vista della propaganda, ma anche il punto di vista medico. Collaboravo anche con il museo Dr. Guislain a Gent, che è un ospedale psichiatrico ancora attivo, e con un centro di studi sulla storia dei culti e delle religioni di Leuven, ma leggevo anche parecchio Foucault in quel periodo. Il colonialismo è rientrato nel discorso molto naturalmente, anche perché è un tema che ho trattato anche nel mio precedente film Un pays plus beau qu’avant.

Come hai lavorato ai testi del film?

Il mio metodo non prevede di montare le immagini e poi scrivere i testi. Il motivo deriva forse dalla ricchezza dell’archivio. Il materiale era moltissimo. Così, mi capitava di appuntare frasi che mi piacevano, di andare su e giù per le sequenze di immagini, cercando di seguire le intuizioni, in maniera musicale.

Quasi come in un’improvvisazione jazz.

Adoro l’improvvisazione del free jazz e invidio molto chi sa suonare uno strumento, al contrario di me. Mi dicono che non è mai troppo tardi per imparare, quindi in qualche modo lo faccio combinando suoni e immagini. In tutta la mia pratica rientra fortemente una dinamica di gioco (in inglese, to play può significare sia giocare sia suonare, Ndr)

Anche il materiale ha giocato con te?

C’era la naturale ansia che sopraggiunge quando bisogna realizzare un progetto. Eppure, con questo tipo di materiale mi sono sentito in pericolo in qualche momento. Ho cercato di rimanere rigoroso, senza però perdere questa libertà d’improvvisazione e d’associazione, cercando di far entrare sempre qualcosa di nuovo nel flusso.

Il suono e il gesto ripetitivo creato dalla mano che pone l’immagine davanti all’obiettivo della macchina da presa crea quasi uno stato di ipnosi. Ci si abbandona al flusso dell’immaginario, a volte sprofondando per poi riemergere dai propri pensieri e dalle proprie deviazioni. Come hai gestito questo ritmo?

Sono felice che questa scelta non sia risultata frustrante. È una sensazione che ho provato quando ho visto Histoire(s) du Cinema di Godard: lo si guarda come una poesia o come un flusso. Galleggi. Sei dentro, ti perdi e poi riemergi, in un movimento organico. C’è stata una costante opera di riscrittura e l’approccio non è stato solamente informativo, benché alcune idee dovessero essere chiare sin da subito. Allo stesso tempo abbiamo trattato il testo come una forma, come un qualcosa con una qualità sonora. Forse anche perché, trattandosi di archivio e di immagini fisse, cercavo del movimento. C’è anche stata la ricerca di un aspetto tattile dell’immagine: la fragilità del supporto, ma anche la sensazione di esser lì in quel momento. Sapevo che era un elemento importante, ma che non poteva avere così tanto peso per non scadere nel manierismo. Broken View è stato un lavoro di bilanciamento, anche e soprattutto sui lati problematici e ambigui di alcune immagini relativo al loro utilizzo. La preoccupazione è stata quella di non usarle in maniera da proporre una reiterazione della violenza coloniale dovuta alla mia posizione di potere nei confronti del materiale. Ho cercato quindi di mettere in scena questi problemi, a cui non ho una soluzione.

Un gesto che ricorda lo scrolling di Instagram e di altri social network.

Ho avuto anche io questa associazione. Verso il finale entra in gioco un materiale diverso, proveniente da un viaggio in Congo di una famiglia belga. In una versione passata del film avevo provato a collegare queste immagini ai social network, per mostrare la persistenza di un certo tipo di estetica o di sguardo nei confronti dell’Africa. Sarebbe stato, però, troppo esplicito, come dire allo spettatore “Vedete qual è il mio punto?”. È stato costruito un gioco tra la distanza e la prossimità, come suggerisce Georges Didi-Huberman. In un libro, che dedica alle poche immagini dei campi di sterminio riprese mentre questi erano ancora operativi, c’è un’idea che secondo me è applicabile in generale: “Approccia con riserva, distanziati con desiderio”. Questa dialettica è per me fondamentale, come fossimo dei compassi. Nonostante ci siano tante immagini, il movimento di Broken View è forse nel trauma.

Nell’epoca attuale, sembra scomparire la mano che pone l’immagine davanti al nostro obiettivo. Come cambia, a tuo parere, il nostro rapporto con l’immagine?

Per me, Serge Daney ha fatto una distinzione semplice ma fondamentale, quella tra image e visuelle. L’immagine è qualcosa che si riferisce sempre a un’altra immagine, che gioca nella dialettica tra la memoria di quella passata e il desiderio di quella successiva, riferendosi all’esterno da sé stessa. Il visuale è invece un circolo chiuso, si riferisce a sé stesso. Mi pare sia stato definito come una verifica ottica del funzionamento di un organo. L’immagine disperde e implode allo stesso tempo. È un argomento che mi spaventa. Ho due bambini e si devono confrontare con tantissime immagini. Da genitore e da insegnante, noto soprattutto il cambiamento nella capacità di concentrarsi. Non posso fargliene una colpa. È incredibile quanta informazione circoli e l’impossibilità dell’essere umano di confrontarsi con questa marea. C’è inoltre una preoccupazione costante per la propria immagine, per la proiezione della nostra vita privata sullo sfondo di quella pubblica. E l’ideologia è strettamente collegata a come proietti quell’immagine.

In Broken View il tema della scelta, soprattutto su come utilizzare le immagini, è molto forte. Nonostante venga scelto uno stile che non replica le strutture colonialiste di pensiero, questo stesso sottotesto rimane inscritto nell’immagine. La ricombinazione le slega da esso, ma abbiamo davvero una scelta sul loro utilizzo? O queste, come l’informazione nella quale stiamo affogando, è incontrollabile?

Non so davvero come speculare su quest’idea, ma sono contento che questo discorso sia stato captato. L’intenzione era quella di cogliere l’essenza di un’operazione problematica, portare le immagini nell’orbita di altre, non solo attraverso il confronto. È molto facile che, nel momento in cui si trasportano due immagini apparentemente scollegate nello stesso spazio poetico, le persone vedano quest’atto come una comparazione. È una posizione molto difensiva. Ne parla Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri. Un fotografo, negli anni ’90, organizza una mostra su Sarajevo sotto assedio, con tutte le atrocità connesse. Qualche anno prima, però, aveva realizzato un progetto fotografico in Etiopia e che viene incluso nell’esposizione. La popolazione bosniaca era furiosa del fatto che il loro dolore, la loro sofferenza, fosse stata comparata con quella di qualcun altro. Per me, il punto non è fare paragoni, ma mostrare come diversi processi stiano accadendo nello stesso momento, come coesistano. C’è un dialogo tra diversi elementi, come nell’opera d’archivio di Walter Benjamin, nella quale ci sono diverse citazioni tra le quali scorre una corrente che li collega. Creare costellazioni.

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