Profondo rosso, di Dario Argento

Nella sua apparenza di un giallo classico e ben strutturato, nasconde il supremo inganno allo spettatore, messo in crisi nella sua percezione delle cose. Da oggi in sala restaurato in 4K.

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E’ tutto troppo pulitino, preciso, troppo formale…” Così all’inizio del film il protagonista Marcus Daly si esprime sul jazz, musica che ha la sua parte fondamentale in Profondo rosso: non solo perché ne è l’innegabile commento musicale (il contributo di Giorgio Gaslini è efficace al pari del tema omonimo – pur inconfondibile – dei Goblin), ma soprattutto perché ne è una sorta di leit-motiv strutturale. Profondo rosso è infatti il film del definitivo distacco dalla rigidità della detection, pure al cospetto (o forse proprio in funzione) di una sceneggiatura molto forte, forse la più equilibrata dei suoi film, piena com’è di tracce disseminate, macguffin e colpi di scena che paiono legarlo alla continuity tradizionale del giallo hitchcockiano, ed invece puntano alla loro dissacrazione e al loro superamento.
In Profondo rosso, il regista romano viola il primo comandamento della suspense: mostra il volto dell’assassino dopo pochi minuti. Correndo un rischio incredibile, scherza con la stessa essenza fisiologica del cinema, e cioè con il principio della persistenza retinica. Lo spettatore, assieme a Marcus Daly, sa di aver visto l’omicida, ne è sicuro: eppure non riesce a ricordarlo. “Forse è talmente importante che non te ne rendi conto”, gli dice Carlo quando l’amico gli confida il disagio di non riuscire a richiamare alla mente qualcosa di fondamentale, che gli è rimasto impresso in modo subliminale.
Questo malessere così sottile si percepisce nel momento in cui gli indizi sembrano risolvere il whodunit contro l’evidenza: quando un movimento di macchina (una villa in fiamme, una luce contrastata che illumina il volto di Daria Nicolodi) pare additare la giornalista Gianna come la colpevole; o soprattutto quando più in là è Carlo ad assumersi la responsabilità: sì, è vero, è la logica alla Conan Doyle che ci impone di rifiutare questa realtà – non può essere l’assassino perché in quel momento era insieme al protagonista – ma è anche il fatto che il volto visto nel quadro all’inizio (lo sappiamo, ma non lo comprendiamo) non è il suo.
Su questo incredibile, e letterale, gioco di specchi, Dario Argento costruisce una storia di investigazione che in realtà è solo il suo ennesimo tentativo di portare lo spettatore su false piste, dispiegando il suo piacere di fare cinema e di giocare con le istituzioni del genere: non pago dell’inganno supremo (il cinema, del resto, e l’arte dell’illusione per definizione), si diverte a terrorizzare lo spettatore imponendogli il suo sguardo e il suo ritmo, ribadendo l’assoluto controllo sulla visione.
Un ritmo che, come si è detto, è tipicamente legato al jazz, che torna nel film sia nella colonna sonora che nella professione del protagonista, compositore e pianista. Il richiamo a questo tipo di musica, alla sua estrema elasticità e libertà davanti ai vincoli della partitura, è una dichiarazione di intenti, più che una citazione. Un film quindi che vive di pause (gli intermezzi comici con Eros Pagni), e vere e proprie divagazioni, come le riprese con la Snorkel, o quella celebre del puppet rambaldiano che spunta dal nulla, un effetto speciale morboso nella sua totale gratuità. Vive soprattutto di assolo improvvisi: le splendide sequenze degli omicidi in cui Argento si sente libero di infliggere le più pesanti mutilazioni, esaltando uno spirito quasi tattile e sensuale (armi da taglio, ustioni, denti sugli spigoli).

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In questo non-giallo strutturato vanamente a perfezione, Argento si libera in una creazione dello spazio che non si limita più alla costruzione di una città immaginaria – sebbene anche qui il gioco dei set meriterebbe un discorso a parte: l’inarrivabile fascino di Piazza CLN, arricchita dal bar preso di peso da un quadro di Edward Hopper, e il decor liberty di Villa Scott, tutti luoghi torinesi messi fuori contesto – ma anche alla decostruzione degli interni in punti di vista sempre diversi. Solo nella sequenza iniziale, nel Teatro Carignano, ci sono quaranta tagli di montaggio, quasi di tutti da prospettive differenti, tra soggettive insistite dell’assassino e dettagli del volto sconvolto della medium Helga che ne ha percepito la presenza e l’identità (non vedendolo tra l’altro, come a ribadire la natura dell’occhio come organo percettivo di scarsa affidabilità).
Lo spettatore, quindi, non solo soffre la difficoltà di ricostruire la storia da un dettaglio che gli è sfuggito, ma vive anche l’impotenza e il disagio di dover vivere uno spazio dell’azione che non è il suo, ma quello del regista, il suo terreno. Come dimostra lo straordinario dolly, un vertiginoso allargamento di campo, che rivela l’urlo della donna massacrata a Marcus e Carlo che chiacchierano nella piazza, lo spazio di Profondo rosso è uno spazio che può cambiare in ogni momento, a seconda del piacere manipolatorio del regista. Impotenza che il pubblico vive con il protagonista (eppure, è uno dei personaggi più attivi del cinema argentiano), che non riesce mai ad accendersi una sigaretta, che a volte non riesce nemmeno a comunicare (i rumori del bar quando prova a telefonare a Gianna, quelli delle macchine che circondano la cabina quando tenta di contattare Giordani). Ovviamente, Argento non si immedesima soltanto fisicamente con l’assassino (le mani sono sempre le sue), ma anche nel ruolo di istanza narrante (“Sembra sempre sapere in anticipo le nostre mosse!” si lamenta Marcus con Gianna, dopo che i due sono arrivati, per l’ennesima volta, un secondo dopo l’omicida).
Con Suspiria, pochi anni dopo, le forme del giallo saranno già un ricordo.

 

Regia: Dario Argento
Interpreti: David Hemmings, Daria Nicolodi, Gabriele Lavia, Macha Méril, Clara Calamai, Eros Pagni, Giuliana Calandra, Glauco Mauri, Nicoletta Elmi
Distribuzione: Cat People
Durata: 126′
Origine: Italia, 1975

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
Sending
Il voto dei lettori
4.14 (22 voti)
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