Richard Jewell, di Clint Eastwood

Credere, aver fiducia, prestar fede, a una storia, a un’immagine, a una persona. È questo che si chiede da sempre Clint. È lì il mistero che ci riporta ancora una volta al fattore umano

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Fatti guardare”: è l’ultima cosa che Watson Bryant dice a Richard Jewell. Ma Jewell, come al solito, non sembra capire. Almeno non del tutto. Se ne sta là, dietro il suo bancone di poliziotto di provincia, con lo sguardo da tontolone pingue. Sì, quel “fatti guardare” assomiglia a un tenero commiato, il tentativo di trattenere ancor un istante l’immagine di quell’amico improbabile, finalmente fiero di essersi guadagnato la sua uniforme di tutore dell’ordine. Ma non è solo questo. Forse anche noi non abbiamo capito bene, ma ci pare che quella di frase di Watson riassuma il senso dell’assurda vicenda di Jewell, che nel tempo di un batter d’occhi si ritrova a compiere tutto il possibile arco di trasformazione del personaggio. L’anonimo grassone scopre lo zaino con l’esplosivo al Centennial Park di Atlanta, fa partire i protocolli per la messa in sicurezza della zona, evita una strage e diventa eroe. Ma, poi, proprio perché soggetto “strano”, risponde al tipo dell’attentatore solitario e si tramuta in un potenziale nemico pubblico numero 1. Il vettore di questa trasformazione improvvisa, ciò che attraversa tutto il punto della questione, umana, morale, politica, è proprio il modo in cui si viene guardati. J, il mostro di Atlanta… monstrum… Affare che riguarda la psicologia dello sguardo e dell’opinione pubblica, si dirà, ma ancor più la trama di potere che si intreccia intorno alla visione e alle narrazioni che ne conseguono. Chissà, se Jewell avesse avuto una vera uniforme, suo sogno da sempre, che immagine avrebbe restituito di sé? Se fosse stato alto, bello, biondo? Alla fine, può darsi che la nostra posizione nel giardino del bene e del male dipenda solo dagli altri, dal modo in cui gli altri ti vedono e ti etichettano. Il santo con l’aureola o il demonio con le corna e la coda da caprone, non sono che rappresentazioni…

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American Sniper, Sully, Attacco al treno: è vero che il cinema di Eastwood è diventato un discorso ossessivo (e autoriflessivo?) sullo statuto dell’eroe. Una mitografia del personaggio… ma il punto non è tanto il personaggio quanto la sua mitografia. E bisognerebbe, quindi, andare ancor più indietro, all’origine di questa ossessione, tra i fatti e le versioni ufficiali della storia. Occorrerebbe tornare alle bandiere dei nostri padri issate sul nulla. O alla prospettiva di Beauchamp, lo scrittore biografo de Gli Spietati, che prima fa la sua apparizione al fianco di Bob l’inglese per poi mettersi al servizio di Little Bill. “Quale storia tu vuoi che io racconti?”, avrebbe cantato qualcuno… “Che cosa scrivi? Lettere, cartoline?” avrebbe risposto William Munny, smontando in un solo istante tutta questa retorica impazzita dei fatti da tramandare che entrano in cortocircuito con i fuochi d’artificio della narrazione. Tra la storia e la leggenda, vince sempre la leggenda? Eastwood riconosce ancora l’urgenza fondamentale della grande questione fordiana, ma si interroga sui suoi paradossi, sui suoi limiti e vicoli ciechi. Che riguardano, ovviamente, questa cosa che chiamiamo cinema, la sua capacità di centrare l’obiettivo o di spostarlo in un confine tutto immaginario, la sua vocazione a costruire miti e il suo potere di svelare la verità nascosta sotto la superficie abbagliante della finzione. E, in questo senso, il come è ancora una volta più importante del cosa. Le scelte compiute dal narratore parlano al di là, oltre, ben più delle sue convinzioni.

Sarà un caso, eppure colpisce che Richard Jewell fosse addetto alla sicurezza durante le Olimpiadi di Atlanta del 1996 solo per conto dell’AT&T, la compagnia di telecomunicazioni. Cavi e connessioni, ripresa e riproduzione, trasmissione, ricezione… roba che oggi potrebbe essere benissimo al centro della strategia terroristica, ma che ancora venticinque anni fa era al di fuori del cuore “vero” dell’azione. A Eastwood non deve essere sfuggito questo dettaglio (e sono anche i dettagli a fare la differenza tra i giganti e gli improvvisati). E coerentemente tiene da parte qualsiasi tensione action, non indulge alla tentazione del thriller (legale o meno), per restare proprio su questo nodo intricato della comunicazione. Per lui che Richard Jewell sia innocente, non è in dubbio nemmeno un istante. Non gli serve ribadire una verità (come se poi fosse in grado…), gli interessa capire come sia potuto accadere. E quindi ricostruisce per filo e per segno la scena dell’attentato, con tutta la precisione ubiqua ed equivoca che il cinema può avere. E poi si concentra su una serie di momenti in cui entra in gioco proprio la questione della visione e del suo riflesso distorto, del racconto e della sua manipolazione, l’immagine di sé e la percezione degli altri. La vertiginosa scena dell’interrogatorio informale, in cui viene richiesto a Jewell di “far finta”, di interpretare e di aderire al ruolo che gli è stato assegnato. O, più, in là, il momento in cui gli agenti lo invitano a rifare la telefonata dell’attentatore. E poi tutti i battibecchi tra Jewell e Bryant su cosa dire e cosa non dire, le interviste ai giornali e alle TV. Non è un caso che tutta la strategia difensiva di Bryant Watson, di questo magnifico e scorretto Sam Rockwell, sia in fondo niente più che una campagna di comunicazione, roba da addetto stampa…

La regola generale, comunque, è che non serve far vedere ciò che può essere raccontato da qualcuno. L’amico Dave viene interrogato dall’FBI che vuole una sua confessione di complicità? Bene, non occorre rifare la scena. Sarà Dave a dircelo. Ma ciò implica un nostro atto di fiducia nei suoi confronti. Ed ecco che la magnifica economia del set e della narrazione di un regista novantenne diventa la vera questione morale. Credere, aver fiducia, prestar fede, a una storia, a un’immagine, a una persona. È questo che si chiede da sempre Clint. Un uomo è la sua faccia. E allora, come si può credere a quest’eroe grassone? Come si può credere a questo avvocato in calzoncini corti? Tutto sta nelle lacrime di liberazione di Paul Walter Hauser. In quel “fatti guardare” di Rockwell. È lì il mistero che ci riporta ancora una volta al fattore umano, al legame che ognuno di noi stabilisce con il mondo, con le cose, con gli altri.

 

Titolo originale: id.
Regia: Clint Eastwood
Interpreti: Paul Walter Hauser, Sam Rockwell, Kathy Bates, Olivia Wilde, Jon Hamm, Nina Arianda
Distribuzione: Warner Bros. Pictures
Durata: 129’
Origine: USA, 2019

La valutazione di Sentieri Selvaggi
4.6

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4.31 (35 voti)
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