#RomaFF13 – Measure of a Man, di Jim Loach

Jim Loach adatta il romanzo semiautobiografico di Robert Lipsyte, One Fat Summer, in un coming of age che racconta l’estate di Bobby Marks e il processo di liberazione dalle sue inibizioni

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Se la misura di un uomo è la sua capacità di navigare, durante la peggior tempesta, verso una giusta spiaggia, per Bobby Marks la strada da percorrere, per diventare uomo e trovare la sua misura, è ancora lunga e faticosa. Già, perché quella stagione della vita, l’estate, che il protagonista del film di Jim Loach, regista inglese che dopo aver cercato di emulare il padre Ken in Oranges and Sunshine cerca con questo Measure of a Man di scrollarsi dalle spalle le ombre dell’influenza paterna, dice di aver tanto odiato, è ancora un paesaggio troppo carico di minacce, con la sua pretesa di mettere inesorabilmente a nudo debolezze e vulnerabilità, per trovare il coraggio di affrontarla senza nascondersi dove nessuno può vederlo. Tanto più se, proprio durante quell’estate in cui la maledizione dell’adolescenza è divenuto un fardello quasi insopportabile, a condividere con Bobby Marks, interpretato da Blake Cooper, la sproporzione di un fisico perennemente a disagio, puntualmente messo alla berlina dal bullo di turno, non c’è più Joanie Williams, da sempre compagna di sventure capace, nella comunione della reciproca miseria da sussurrare attraverso uno walkie-talkie, di rendere meno insopportabili i mesi trascorsi a Rumson Lake.
measure of a manA partire dalla voce fuori campo del protagonista che, alla maniera di Stand by me, ma lontano anni luce dalle stratificazioni proprie dell’universo di Stephen King, guarda indietro, alla sua storia, stando ben attento ad usare il verbo “odiare” al passato, in modo da far presagire, fin dall’inizio, il processo di maturazione di Bobby attorno al quale gira tutto il racconto, Jim Loach e con lui, lo sceneggiatore David Scearce, adattano il romanzo semiautobiografico di Robert Lipsyte, One Fat Summer, con il chiaro intento di far combaciare le classiche traiettorie del coming of age, qui immerso nelle atmosfere seppiate dal sapore nostalgico degli anni ’70, con l’imperativo morale di cui il film si fa, senza mezzi termini, paladino. Il messaggio che informa Measure of a Man, ovvero crescere significa imparare ad avere fiducia in se stessi, perché nella vita a contare non è l’aspetto esteriore, come molti invece vogliono farci credere, ma quello che siamo dentro, non è a ben guardare molto diverso da quello che si legge attraverso le carambole sboccate di Come ti divento bella. Al contrario di Amy Schumer, pur con le dovute differenze di genere, a mancare nel film di Jim Loach è però proprio la capacità di lasciarsi andare, in modo da poter davvero mandare in frantumi gli schemi imposti dall’esterno, nel caso di Measure of a Man l’obesità come marchio di cui doversi vergognare, e intraprendere così una politica di rieducazione alla percezione del proprio corpo e, soprattutto, del proprio posto nel mondo. In un film dove, a scapito dell’empatia, è la funzionalità a dominare ogni possibile traiettoria, Jim Loach si limita a tenere tutto sotto controllo, guardando ai personaggi del film come fossero pedine disposte su una scacchiera e lasciando, così, scivolare al margine del processo di liberazione dalle inibizioni raccontato in Measure of a Man la possibilità di sperimentare veramente l’incertezza e la profondità emotiva del mondo di Bobby Marks.

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