Steven Soderbergh torna al Sundance con l’horror Presence

Il regista e lo sceneggiatore David Koepp sono pronti a sfidare le convenzioni del cinema moderno, terrorizzando il pubblico con l’utilizzo della tecnica POV

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Sono trentacinque gli anni trascorsi dalla prima apparizione di Steven Soderbergh al Sundance Film Festival. È il 1989, Sesso, bugie e videotape, l’esordio registico dello stesso, considerato il precursore del cinema indie americano per come lo conosciamo oggi e divenuto per questa ragione un vero e proprio cult, vince al Sundance, ottenendo in seguito perfino l’ambita Palma d’Oro a Cannes. Quello il film capace di dare il via ad una tanto prolifica, quanto eclettica carriera cinematografica, che a distanza di anni dimostra di non essersi affatto arenata, piuttosto, pronta a rinnovarsi, ragionando su sé stessa, inquietando e forse, perfino conquistando.

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Mentre si rincorrono incessanti le voci e le opinioni di alcuni fortunati spettatori, evidentemente scossi e sinceramente destabilizzati – o in definitiva, traumatizzati – dalla proiezione di Presence, trentottesimo lungometraggio di carriera di Steven Soderbergh, presentato al Sundance Film Festival, nel corso della sua quarantesima edizione, ufficializzando una primissima e certamente discussa incursione nel cinema horror duro e puro da parte di Soderbergh, tornano alla memoria alcune riflessioni dell’autore di Traffic, Intrigo a Berlino e La truffa dei Logan, a proposito della saggezza convenzionale del cinema e così del punto di vista delle inquadrature e dell’esperienza visiva collettiva.

Steven Soderbergh al Sundance - Sentieri Selvaggi

Infatti, laddove Soderbergh, da sempre ambiziosamente alla ricerca di un’aperta e costante sfida, tanto con sé stesso, quanto con il sistema cinema, sembri arenarsi, anche solo per un istante di fronte alla possibilità, considerata all’epoca piuttosto rischiosa dallo stesso, rispetto all’utilizzo del POV, dunque di alcuni nuovi strumenti cinematografici, tra i quali il visore VR, capaci di dare vita a nuove forme cinema, giungono ben presto tre esperimenti formali. Ciascuno dei quali, in modo differente, è destinato a sfidare decenni di convenzioni cinematografiche, così come moltissime certezze autoriali dello stesso Soderbergh.

È il caso di Unsane, Kimi – Qualcuno in ascolto e Presence, che in aperta sfida con quanto affermato, con grande convinzione e precisione dal suo autore, racconta e mostra la graduale discesa nella follia di un nucleo famigliare disfunzionale, all’interno di un appartamento di provincia come tanti.

Torna qui la riflessione sulla limitatezza dello scenario narrativo e degli angoli bui della psiche -, il tutto osservato dal punto di vista – in POV – di un’inquietante presenza, o fantasma, destinato certamente ad innescare un gioco al massacro piuttosto macabro e inquietante, o almeno così sembra stando alle parole del suo sceneggiatore, David Koepp che definisce Presence, “una sua personale versione di Shining, ambientata però in una piccola casa di periferia”.

Sulla capacità di mettersi in discussione e dunque di rinnovarsi, così come sulle controversie, i dibattiti cinefili e le incessanti rivoluzioni cinematografiche, questo è – e sempre sarà – il cinema di Steven Soderbergh.

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