Ta'zyyè, ovvero l'oratorio cinematografico di Abbas Kiarostami.

Il teatro di Kiarostami esprime uno scontro, un corpo a corpo di dimensioni secolari con un gusto del “gestus” poetico/epico lambito da mille aperture prospettiche e con un senso di sfuggente frontalità visiva.

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Amir Naderi nel suo ultimo Marathon (film necessario allo sguardo come un lampo di pura magia visiva che sgretola le coordinate tramite le quali leggere il cinema del mondo) ci ha posto un problema di carature non indifferenti. Se infatti oggi il vedere si situa direttamente in regioni spaziali non subito localizzabili come un decennio fa (parliamo del super-occhio di Internet e delle sue delocalizzazioni continue del corpo, delle sue traiettorie quasi sempre carsiche dunque invisibili), si fa sempre più forte il bisogno di materializzare un corpo, o meglio, un organismo predisposto all'esercizio dei sensi, una materia mutante, proprio perché esposta al contatto con i rumori di fondo di una civiltà centrata su assiomi sempre meno definiti. Non è un caso che la protagonista dell'opera mimi un movimento pluridirezionale, estremamente fisico, quasi a voler produrre una proliferazione improvvisa di tutti quei corpi che i suoi cruciverba nascondono, mascherano, geometrizzano. E' dal movimento allora (fisico/mentale) che nasce interazione, ed è da quest'ultima che salta fuori la consapevolezza di dover dare sempre nuove forme al mondo, giocando con le parole, salendo-e-scendendo dalla metropolitana e così via. Giocarsi dunque l'esistenza, interrogandola al tempo stesso sul senso da dare/restituire allo sguardo. Naderi è un esempio magnifico di occhio che corre lungo tutti gli strati della materia (è liquido, gassoso, aereiforme, oscillante tra estremi che abita solo il tempo di un'opera), Abbas Kiarostami non gli è da meno, soprattutto se lo si colloca nel cuore di un cinema avvolto da sussulti continui, incapace di adagiarsi sui un'unica immagine, per contaminarla continuamente con gli impossibili scarti di un atto in bilico tra realtà e finzione (esemplare a questo proposito tutto il suo cinema degli anni '80, con qualche riserva per le sue ultime opere), proprio perché restio all'occupazione di un'unica ombra visiva. Ed è proprio a Roma che Kiarostami è giunto con un suo particolarissimo spettacolo teatrale, Ta'ziyè, da qualche giorno e fino all'otto luglio al Teatro India. Due parole per una necessaria premessa. Il Ta'ziyè ci parla direttamente del mondo islamico. E' infatti la forma teatrale principe partorita attraverso i secoli dalla cultura islamica, quasi a voler sancire/irrobustire/cimentare il senso di un'appartenenza, la comunione di principi identici. La genesi è chiaramente religiosa, capace però di allargarsi a macchia d'olio sino ad investire il cuore pulsante della cultura che l'ha prodotta. Infatti, sin dalle lontane origini, il Ta'zayè rievocava il sacrificio dell'imam Hussein, nipote di Maometto, nonché suo erede, sterminato con la sua famiglia dagli scagnozzi del califfo di Baghdad, lungo la strada che porta alla Mecca. Un legame dunque con la tradizione, plasmata a mò di sacra rappresentazione e agita dalla produzione di una fortissima dialettica interna, affidata non a caso alle due parti che animavano l'islamismo, e cioè gli sciiti e i sunniti (questi ultimi, a differenza dei primi che difendevano la linea ereditaria, sostenevano la successione ereditaria). Di fronte alla complessità di un materiale simile, Kiarostami ha essenzializzato il suo discorso poetico, muovendosi direttamente sui corpi messi in campo, e rispettando pienamente contrapposizioni e caratteri, muovendo alla formazione di un universo policromatico (Hussein e i suoi hanno abiti verdi che appunto simboleggia purezza e candore, mentre i suoi avversari sono immersi in un terribile rosso sangue che già inizialmente preannuncia le nefandezze di cui si macchieranno) segnato da un'enorme pedana che si staglia al centro della scena, caratterizzata poi da una pista in cui avviene l'azione.

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Dicevamo sacra rappresentazione. L'effetto visivo è senz'altro quello, come se improvvisamente venissimo catapultati nel bel mezzo di un peagent barocco, o meglio ancora di un tableau vivent medioevale, ma si tratta comunque di definizioni che denunciano subito una deriva occidentalizzante, marchiata a fuoco dalla tragica inanità del tentativo di nominare lo sconosciuto. Il teatro di Kiarostami esprime uno scontro, un corpo a corpo di dimensioni secolari con un gusto del gestus poetico/epico lambito da mille aperture prospettiche (ci si muove anche a cavallo sulla scena, quasi a voler disegnare orizzonti oculari in perdita rispetto all'evidente monoset rappresentativo), e con un senso di sfuggente frontalità visiva (non esiste un solo nucleo visivo, ma tanti frammenti slegati che disegnano traiettorie davvero illuminanti, segni epidermici di un lavorio sul testo monolitico di base che vanno dall'epicità politica di Brecht (specialmente quando si tratta di riflettere appunto sulla dimensione scritta della scena), alla perlustrazione sul movimento quasi memore di costanti grotovskiane, se non altro per il senso di immediata fisicità, sia pur costruita, che riproducono. Fin qui, un gran bel lavoro su un testo base difficilissimo da affrontare e risolvere, poi, perfino qualcosa di più. Spendiamo allora due parole sulla valenza odierna del Ta'ziyè. Non si tratta di una forma teatrale seppellita dai secoli e ridotta a brandello di carne cristallizzato nei volumi di storia del teatro. Anzi, tutt'altro. Il Ta'ziyè continua a sopravvivere a se stesso, in forma di spettacolo che viene inscenato una volta l'anno, all'aperto, e allestito/recitato da attori rigorosamente non professionisti che abbandonano il lavoro per immergersi nell'atmosfera della rappresentazione. Spettacolo, abbiamo detto, ma non è proprio esatto. Si tratta più che altro di una sorta di vero e proprio rito che investe la comunità, un eterno presente della Storia a cui ognuno prende parte (recitando anche più di otto ore consecutive), in regioni di un immaginario che da individuale si fa collettivo, per mutare continuamente linguaggio ed espressione, e attraversare epifanie sociali e religiose affioranti direttamente dalle radici della terra. Torniamo allora a Kiarostami. La scena, come precisato poc'anzi, si organizza attrono ad una pedana centrale. Non basta. Attorno a questa, quasi a voler disegnare un cerchio di dimensioni pressochè perfette, una serie di schermi cinematografici, sui quali scorre ininterrottamente un flusso di immagini. Di che si tratta? Ma di donne, vecchi, e bambini, che Kiarostami ha filmato in una cittadina vicino Teheran in cui si svolgeva la rappresentazione. Non ci vengono mostrate le immagini dello spettacolo, ma quelle degli occhi incuriositi/svogliati/stupiti/assonnati degli spettatori, all'interno di un agone in cui il linguaggio non è mai proferito da corpi visibili, ma sedimentato sui corpi di chi guarda, sorpreso nell'atto di espandersi nell'aria quale oralità convulsa e preziosa che restituisce corpo al verbo, mantra rapsodico e luminoso ripetuto senza soste. Kiarostami si riavvicina come per miracolo all'archeologia teatrale di Piscator (con Brecht forse, passando chiaramente per Meierchol'd, il maggior sognatore del teatro dei primi del Novecento), e rimette in circolo un'idea di cinema vissuta come desiderio di espandersi al di là del proprio corpo, abolendo tempo, spazio, occasione, per essere occhi tra gli occhi, puro desiderio di riflettersi nella commozione/partecipazione dell'altro, e finendo per aderire ad un progetto di visibilità pura lontana da ogni tipo di tentazione globalizza(trice)nte. Ci pare che negli spazi che dividono lo schermo dalla scena e noi da quest'ultima, Kiarostami abbia centrato l'essenza provvisoria e fugace del cinema di oggi, proprio per il suo tripartire, dividere, staccare, che non fa altro che preludere al successivo abbraccio (questo il contatto che di fatto quasi si ha con gli spettatori iraniani presenti sul video), in cui non ci si confonde con l'altro, ma ci si riafferma quali identità tese al mescolamento, al confronto, all'interrogazione. E' questo il cinema da cui siamo irretiti oggi, questo l'universo genealogico di un'immagine che si perde nel ritardo della ripetizione, per assumere connotati che da un lato ci separano dalla comprensione immediata del Ta'ziyè, mentre dall'altro riformulano il nostro senso di appartenenza alla comunità di un comune sentire proiettato sull'iride di occhi che ci guardano. Guardandosi.

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