This is Us, di Dan Fogelman

Disponibile su Amazon Prime Video, la serie in quattro stagioni sui Pearson ha assunto durante le varie fasi del lockdown quasi il valore di una lunga videochiamata o di un filmino di famiglia

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This is Us. Questo siamo noi. La nostra realtà e anche l’immagine che proiettiamo. Siamo una storia vera e a volte parte di una fiction. In questi giorni, dovunque ci troviamo nel mondo, siamo un gruppo di persone che ha appena vissuto o ancora vive una sorta d’isolamento privato, ma collettivo. Come se fossimo in un reality show, dentro un’inquadratura fissa con una voce off che ci dice cosa fare e un fuori campo che cominciamo a dimenticare. Un quotidiano dove tutto capita qui e ora, nella stessa dimensione. Nello stesso set. E a volte, nella stessa scena.

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This is Us, la serie creata da Dan Fogelman (Crazy, stupid love, La vita in un attimo) disponibile su Amazon Prime, sembra proprio un riflesso di questa vita ignota e sospesa che ci tocca sperimentare. La serie vuol essere anche un ritratto della storia degli Stati Uniti e il racconto dell’evoluzione di una società, dell’essere umano nella sua dimensione sociale, privata e intima. Tutto in 45 minuti di puntata. Con quattro stagioni complete e la promessa di una quinta, segue in modo circolare la famiglia Pearson: Jack (Milo Ventimiglia), il padre- eroe, buono e innamorato, sua moglie (Mandy Moore), che canalizza la sua energia e frustrazione nella protezione dei propri figli, i gemelli triplette Kate (Chrissy Metz), Kevin (Justin Hartley) e Randall (Sterling K. Brown), complessi, opposti e allo stesso tempo inseparabili. Salti indietro, viaggi nel futuro, pezzi di presente, conflitti che se ripetono e ripiegano in continuazione, come un pendolo che va avanti e indietro ma che torna sempre al suo punto d’origine. Ogni puntata inizia e finisce nello stesso posto, come un cerchio, un racconto che invece di espandersi e andare avanti a un certo punto si ferma, si decostruisce e poi ricomincia. Come se l’unica possibilità di mobilità fosse il guardare indietro, per dare un senso alle frustrazioni e sofferenze che continuano a ripetersi.

La formula, diciamo, funziona. Almeno qua, nel mio Cile natio – da quando è cominciata la

quarantena – guardare e parlare di This is Us è diventata una pratica quasi obbligatoria, fa parte del confinamento, una chiacchiera sicura con gli amici e parenti che si rifugiano nel mondo della finzione. Come se i Pearson facessero parte delle nostre videochiamate Zoom, la loro presenza si è trasformata in qualcosa di intimo, un rapporto affettivo. Come se parlassimo con i nostri cari sullo schermo e non potessimo chiudere la chiamata, anche se vogliamo, anche se a volte ci stancano. Più che altro, il fulcro si trova in una sorta di paradosso: i protagonisti, i loro problemi domestici, le interazioni, a volte sembrano strani, lontani e pure eccentrici. Allo stesso tempo, si rendono vicini, quasi essenziali, un riflesso alieno ma riconoscibile, come se fossero parte del nostro immaginario quotidiano. Alla fine, anche se i loro conflitti possano diventare un po’ sopra le righe e lontani dalla nostra realtà, vince sempre l’empatia e la voglia di essere un po’ come loro. Oppure di essere un altro. Un altro dentro uno schermo, al sicuro.

Più che altro, This is Us è onesta perché sin dall’inizio non nasconde la sua inclinazione drammatica né la passione per il cliché. Non cerca di proporre qualcosa di nuovo, oppure di scappare dai canoni del genere, sa essere intrinsecamente classica. Come un film leggero di Natale che recuperiamo ogni anno. Come una serie degli anni ’60, un film hollywoodiano degli anni ’40, un romanzo rosa con le pagine ingiallite che nascondiamo sotto il cuscino. Una proposta che non perde mai la sua vocazione di filmino famigliare e ci permette di sperimentare una quotidianità che non ci appartiene. Che, per un attimo, rende possibile vivere la vita degli altri.

Il filo che unisce i personaggi si ripiega e condiziona il modo di essere di genitori, figli, fratelli, non importa dove siano. Come una costellazione famigliare, uno studio sociologico, un esperimento tipo Boyhood frammentato e in formato TV. Ogni personaggio è la versione di un altro, un riflesso, la replica di un’eredità sparita che torna a cercare la luce. I Pearson, come tutti, sono il risultato del loro passato, nel bene e nel male. La lucidità, allora, non si trova nel fatto di fuggire da questa eredità o cercare un lieto fine, ma nel riconoscere quella carica e farla diventare materia prima, un foglio bianco, una nuova storia da raccontare.

Questo è This is Us. La storia di qualunque famiglia che si costruisce, si ama, fallisce e poi torna a credere, che a volte si sente strana e altre parte di un tutto infrangibile. È pure un invito a capire un po’ più di cosa siamo fatti. Capire perché continuiamo ancora a guardare serie tv anche se ci rendono dipendenti, anche se ci fanno piangere. Perché il cinema può essere il nostro miglior compagno in tempi in cui la vita reale ci sembra troppo, quasi irraggiungibile. Anche quando sappiamo che non c’è alla fine più troppa differenza tra finzione e realtà.

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