TORINO 27 – "Valhalla Rising", di Nicolas Winding Refn (Rapporto confidenziale)

valhalla rising
Il film finisce per non avere un'anima, indeciso tra lo sporcarsi appieno nel fango e nelle budella delle storie dei suoi eroici e spietati vichinghi, e il trasfigurare i vichinghi stessi in problematiche figure allegoriche che si interrogano sulla vita, la morte, la perdizione e il paradiso. Ma forse il senso sta proprio in questo vagare, una serie di tentativi di venire fuori dalla fitta nebbia, girando in cerchio senza alcuna possibilità né di uscita, né di reale entrata o passaggio

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valhalla risingNicolas Winding Refn continua nel suo personale percorso attraverso l'utopia di un blockbuster 'd'autore', che possa unire una certa attrattiva di cinema 'virile' ad un trattamento dell'immagine che sembra inserirsi appieno nelle problematiche della cinematografia danese (il fascino della violenza primordiale, i crucci cristologico-religiosi, le arcaiche questioni 'morali'): ma dalla trilogia del Pusher che lo ha fatto diventare il Piccolo Giove di un raccolto Olimpo di Adorazione, al progetto di questo Valhalla Rising, Refn pare aver volutamente rarefatto la indiscutibile potenza del suo stile verso un'astrazione che unisce un kitsch abbastanza pacchiano a diverse pretenziosità spesso irritanti. Come esempio simile viene in mente il recente Mongol di Bodrov, ma Refn si spinge ancora oltre, imbastendo la vicenda del guerriero muto e con un occhio cieco One-Eye, che come un Caronte minaccioso e letale traghetta un manipolo di vichinghi cristiani verso un Inferno di morte, deliri e violenza. La pellicola pare vista attraverso gli occhi del suo protagonista, e dunque è per larga parte silente, affidata al fascino di una fotografia desaturata in mezzo a cui si stagliano queste figure arcane e mastodontiche – fascinazioni visive spesso interrotte da sequenze di lotta particolarmente crude e concitate, e da frammenti 'onirici' affidati a tutta una serie di manipolazioni del colore degli elementi nel quadro, e sottolineati dal volume crescente della frastornante colonna sonora elettronica, completamente assente dalla sezione 'contemplativa' della pellicola. 
Così com'è, il film finisce per non avere un'anima, indeciso tra lo sporcarsi appieno nel fango e nelle budella delle storie dei suoi eroici e spietati vichinghi, e il trasfigurare i vichinghi stessi in problematiche figure allegoriche che si interrogano sulla vita, la morte, la perdizione e il paradiso. Ma forse il senso finale dell'operazione sta proprio in questo vagare senza un senso apparente, una serie di tentativi di venire fuori dalla fitta nebbia scanditi dal progredire dei capitoletti in cui il film è diviso, girando in cerchio senza alcuna possibilità né di uscita, né di reale entrata o passaggio attraverso un Cinema che sembra aver fatto della sua vocazione all'emblematicità la condanna definitiva a restare cristallizzato in una posizione di mezzo, inestricabile.
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