TS+FF 2020 – Il tempo è l’horror più pauroso

Relic, di Natalie Erika James e Come in cielo, così in terra, di Francesco Erba raccontano, senza versare una goccia di sangue, come il trascorrere del tempo sia il più spaventevole dei jumpscare

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Strano destino quello dell’horror. Da una parte per sopravvivere nel nuovo millennio ha dovuto rinunciare in gran parte alla sua componente più materica e gettarsi nella fauci della metafora calcata a china grossa mentre dall’altra è incorso nel nostalgismo di tanti generosi appassionati che vagheggiano un ritorno alle origini semanticamente impossibili da replicare. L’edizione appena conclusa di TS+FF 2020 ha confermato al proprio interno la presenza di entrambe le posizioni con due film che già da un punto di vista realizzativo esemplificano queste diverse esigenze. Relic, di Natalie Erika James presentato in anteprima nazionale per il pubblico del Trieste Science+Fiction Festival dopo aver ottenuto il prestigioso passaggio al Sundance Film Festival nella sezione Midnight, è stato infatti prodotto da Jake Gyllenhaal con l’aiuto addirittura dei fratelli Russo del moloch del Cinematic Marvel Universe Avengers: Endgame nel ruolo di produttori esecutivi. La regista sino-australiana al suo esordio sul lungometraggio dopo qualche fortunato corto s’inserisce nell’onda lunga dell’horror dell’ultimo ventennio facendo di un’apparentemente canonica Haunted House un veicolo narrativo per una storia dall’evidente messaggio politico/sociale. Ciò che sorprende di James e di tutti questi giovani autori alla prese con un genere d’elezione spesso solo momentaneo è la costante ricerca di appiattimento sui suoi stilemi. In Relic viene messa in scena la storia di Edna, anziana affetta da un preoccupante principio di demenza senile che ad un certo punto scompare misteriosamente. La figlia Kay (Emily Mortimer) e la nipote Sam (Bella Heathcote) si recano nella vecchia casa di famiglia situata in un bosco e cominciano lentamente le ricerche. All’improvviso, così inspiegabilmente come quando era scomparsa, l’anziana matriarca ritorna, senza ricordare apparentemente nulla dei giorni passati. Ma qualcosa sembra cambiato e tutte le oscure minacce a cui perfino l’atavica dimora compartecipa sveleranno una maledizione demoniaca. Come si può evincere dal riassunto, James ricorre ad un canovaccio classico sia dal punto di vista stilistico che da quello cronologico. La paura della presenza soprannaturale serve infatti a far passare nella pelle dello spettatore i ben più inquietanti effetti del trascorrere del tempo nel corpo di un familiare amato. La presenza di post-it che auto-ricordano alla madre azioni banali come chiudere un rubinetto dopo l’utilizzo e perfino il nome di persone care è per la figlia Kay, affermata ma fredda professionista, e la più sensibile nipote Sam, una dolorosa presa di coscienza che atterrisce l’animo umano più dei sinistri scricchiolii della mansarda perché tocca il senso di colpa per quell’abbandono. A questa sostanziale novità tematica, sviluppata con una saggia rarefazione emozionale che non ha bisogno di indugiare melodrammaticamente su una situazione già molto empatica, non viene però accompagnata una contemporanea riflessione sul linguaggio cinematografico. James infatti non vuole ridiscutere le forme orrorifiche e si accontenta di utilizzarle pianamente cercando la definitiva destabilizzazione col potente finale. Così facendo però Relic rinuncia alla funzione diegetica e paradossalmente svela al contempo la debolezza di ciò che vorrebbe far risaltare: l’accettazione della morte da parte delle protagoniste. Il dialogo tra tre generazioni di donne alle prese con l’avvenuta consapevolezza che la decomposizione dell’organismo funziona alla stregua di una maledizione “altra”, calata come una scure solo perché ci si era dimenticati della sua perenne presenza, riesce a liberarsi dei cliché con cui era stato raccontato solo nella catartica immagine a chiusa del film che sembra una delicata versione del Nekromantick di Jörg Buttgereit.

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L’altra operazione sul tempo, compiuta però dal lato opposto della barricata – e qui il termine è usato in senso pieno considerata la passione ultra-indipendente del progetto – è Come in cielo, così in terra, di Francesco Erba presentato nella sezione Spazio Italia, dedicata ai protagonisti e alle produzioni del cinema fantastico italiano. L’approccio del giovane regista bergamasco verso il thriller e l’horror manifesta da subito una contiguità che è specificatamente passionale prima di essere creativa. La lavorazione infatti si è svolta nel corso di lunghi 5 anni tra le campagne padane e ha visto un finanziamento in gran parte autonomo. Nonostante la penuria di mezzi Come in cielo, così in terra è contrassegnato da una complessità strutturale che cerca di indagare su tre diversi livelli temporali una storia ricca di particolari e collegamenti. Partendo dalla scomparsa nel 2011 di Cris e Jenny nei boschi circostanti Leonardo, ispettore di Polizia incaricato delle indagini, scopre un mistero legato ad una terribile storia di sevizie avvenuta nel 1275 nella stessa abazia dove i due giovani hanno lasciato le loro ultime tracce audiovisuali. Erba fa corrispondere ai tre distinti blocchi narrativi tre diverse modalità filmiche: se il resoconto del poliziotto è un fascinoso videodiario in prima persona che rimanda alle avventure grafiche in soggettiva, le riprese della temeraria coppia invece sono un divertito omaggio al mockumentary che dopo anni d’abuso mostra come esso sia ancora significativo se usato con cognizione. Purtroppo è l’ultimo segmento, nelle intenzioni dell’autore il più importante per durata e tecnica, ad essere quello meno adatto alla trama: l’animazione in stop-motion mal si concilia con la visione di una donna martoriata da esperimenti alchemici effettuati da un sadico e muto scienziato mistico. L’opera prima di Erba cercando di rispettare ossequiosamente l’accumulo fattuale di tante opere di genere si perde in quei meandri mancando quella che poteva essere l’idea fulminante: la diversa trattazione del Tempo secondo modalità horror/sci-fi sincretiche.

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