VENEZIA 59 – Matrici nascoste di cinema: Falce, Martello e fascio

la retrospettiva veneziana sul cinema sovietico, pur nella sua marginalità, rilancia con forza, l'idea del cinema come ricerca di un linguaggio e di uno sguardo.

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Apparentemente marginale, nascosta, fuori dai circuiti più mediatizzati del Festival, uno spettro si aggirava per la laguna. Una piccola retrospettiva, dal titolo "Falce, martello e fascio", riuniva un pugno di film sovietici e cecoslovacchi uniti dal fatto di essere passati alla mostra di Venezia durante il ventennio fascista. Un piccolo omaggio più che altro, neanche lontanamente paragonabile alla retrospettiva sul cinema sovietico di qualche anno fa a Locarno. Probabilmente un pretesto per costruire una retrospettiva in poco tempo. Ciò nonostante, pur nella marginalità in cui è stata relegata, la piccola rassegna spinge ad attivare una serie di riflessioni sul cinema, sulle tendenze e le forme che il cinema sta assumendo negli ultimi anni e di cui la Mostra, nel bene e nel male, si propone come specchio, come riflesso.

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Vedere o rivedere oggi Ekk, Barnet, Aleksandrov, Romm, Ptuschko, solo per fermarsi ai registi sovietici, per poi immergersi di nuovo nel flusso delle varie sezioni veneziane, crea un corto circuito critico. Passato e presente si confondono, semplicemente perché i film visti nella retrospettiva resistono ad una sistemazione storico-critica, fuoriescono dagli argini delle griglie interpretative della storia del cinema e si mostrano – si fanno vedere – ancora, nella loro attualità. Si inizia con Verso la vita di Ekk, punto di frattura, cerniera tra due linguaggi potenti e contrastanti del cinema, il muto e il sonoro. Il film di Ekk (1931) è il primo film sonoro prodotto in URSS, momento di passaggio delicato tra una forma di sperimentazione ed un'altra, tra la prevalenza del montaggio come principio del cinema e la narrazione epica del realismo socialista. Ma proprio perché film-limite, luogo di confine tra due momenti, due epoche mai completamente slegate l'una nei confronti dell'altra, Verso la vita continua a stupire, continua a produrre una tensione creativa, a presentarsi come sperimentazione ad ogni inquadratura, ad ogni sequenza. La densità dei corpi e degli spazi, tipica del muto, si incontra (si scontra) con l'intensità della recitazione della parola, per la prima volta nel cinema sovietico chiamata a farsi immagine. La regolamentazione dei corpi liberi e fuori schema dei ragazzi (il film narra la storia di un gruppo di ragazzi senza tetto che, grazie alla guida del partito trovano uno scopo nella vita) non toglie nulla alla ribellione, alla volontà di libertà di un cinema che non si è ancora arreso alla sua utopia. La tensione drammatica e l'infinita creazione di forme fanno di Verso la vita un film unico e tutt'ora straordinario. Ma il corpo, questo set straordinario che il cinema muto ha esplorato a lungo e proficuamente, e che l'avvento del sonoro non cancella, ma rilancia sotto altra forma, ritorna ancora in Sobborghi (1931) di Boris Barnet. Ogni personaggio del film moltiplica le possibilità espressive del cinema attraverso la naturalità e insieme la straordinaria complessità dei suoi gesti, delle sue espressioni, delle smorfie o dei sorrisi. La complessità dell'esistenza quotidiana emerge semplicemente così, negli attori barnettiani come organismi di cinema che ogni volta sperimentano il limite del corpo e dello schermo. La leggerezza di Barnet (che parla sempre di temi serissimi) si esprime al meglio in questo film, ancora una volta terreno di sperimentazione, di ricerca di forme. La leggerezza, la danza e il canto come luoghi possibili del cinema, vengono ribaditi da Aleksandrov, nel suo film d'esordio Ragazzi allegri (1932), musical esplosivo, barocco, debordante, tradimento consumato ai danni del cinema globale di Ejzenstejn, e, allo stesso tempo, sperimentazione di forme libere, in cui l'immagine il canto e la parola divengono strutture dinamiche, in grado di far esplodere i set (la casa borghese invasa dalle mucche, la rissa tra i musicisti dell'orchestra). Cinema libero (forse l'unico film di Aleksandrov veramente "libero"), e allo stesso tempo avvolto dall'ombra del disimpegno come arma di propaganda. Sospeso tra invenzione ed obbedienza, anche Ragazzi allegri fuoriesce dalle maglie di una sistemazione storico-critica che finisce per negarne la forza e l'ambiguità.


Parlare della transizione dal muto al sonoro significa infatti non tanto legittimare l'esistenza di un brusco passaggio dalla libertà creativa degli anni venti alla costrizione totalitaria degli anni trenta, quanto rintracciare un momento di transizione fecondo e complesso, in cui la pluralità delle forme – La lotta per il predominio ora dell'una ora dell'altra – costituisce la marca principale di un cinema vivo. È infatti per esigenze di sperimentazione che Michail Romm ancora nel 1934, in piena esplosione del sonoro, realizza un film  muto straordinario come Palla di sego. Quando la parola pronunciata ed ascoltata, invade lo schermo, si fa strumento espressivo, la purezza dell'immagine risalta nella sua potenza. Il luogo chiuso e ristretto (l'interno di una carrozza dove si ritrova un'umanità variegata prima ancora di Ford e di Stagecoach), permette al volto, allo sguardo, alla luce e all'ombra di esprimersi totalmente, mostrando la capacita del cinema di negarsi come rappresentazione del reale, di usare la materia per trascenderla in astrazione pura. Il corpo, l'oggetto, il vestito sono i materiali di un processo particolare, di un meccanismo di smaterializzazione della realtà, trasfigurazione necessaria dell'immagine.


Tra corporeità ed astrazione si muove anche Aleksandr Ptuschko, con Il nuovo Gulliver (1935), il primo film d'animazione sovietico, in cui un bambino sogna di rivivere il viaggio di Gulliver a Lilliput. Ptuschko, lavora su un doppio registro: il bambino in carne ed ossa interagisce con gli abitanti di Lilliput, piccoli pupazzi animati secondo al tecnica del passo uno. La doppia realtà del film è affascinante: da una parte Petja, il bambino, schematica incarnazione dell'uomo del futuro, del rappresentante del realismo socialista, corpo vivente d'attore e, allo stesso tempo, schema recitante dell'ideologia; dall'altra la variegata popolazione di Lilliput, dai nobili agli artisti, dai minatori alle damigelle. L'animazione sorprende, Ptuschko crea un mondo in miniatura strordinariamente vivo e plastico i cui riferimenti vanno da Metropolis al Barone di Munchausen, vera e propria rassegna del cinema fantastico e visionario. L'opposizione si rovescia: come l'attore diventa schema, il pupazzo si anima e prende vita.


Ogni film dunque – tralasciando per ragioni di spazio la seconda parte della rassegna, quella dedicata ai film cecoslovacchi – costituisce un'intenso e complesso esempio di cinema, di forma e di linguaggio in azione, negando ogni facile etichettatura, categorizzazione. Se l'edizione di Venezia di quest'anno ha dimostrato qualcosa è quindi proprio lo scarto – a volte drammaticamente incolmabile – tra un cinema che è ormai sempre più in molti casi una triste parodia di se stesso (ma continua a vincere premi), e tracce sparse nel presente (Kitano, Zhuangzhuang, Eastwood, Konchalovsky, Ripstein, Gopalakrishnan, Depardon) e nel passato che continua a farsi presente, a ribadire con forza l'idea di un cinema come ricerca di linguaggio e di sguardo.

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