VENEZIA 65 – "La fabbrica dei tedeschi", di Mimmo Calopresti (Orizzonti/Eventi)
Il film è un colpo al cuore, allo stomaco, al cervello. Sferrato con quella capacità di stare dentro le storie eppure lasciarle parlare da sé, grazie alla sua esperienza di un vissuto fatto di emigrazione, fabbrica,
Ci voleva il coraggio e la dignità di sguardo di Mimmo Calopresti, per toglierci dall’imbarazzo al quale ormai siamo abituati, di fronte ai film italiani ogni anno presentati qui a Venezia, come se questa Mostra dallo sguardo libero (basti pensare ai tre film americani selezionati, agli sguardi africani, agli asiatici, ai francesi….) solo sul cinema nostrano è chiusa in una gabbia oscura, quella tutta vergognosamente politica del duo/monopolio di potere (politico, mediatico, produttivo). Solo questa condizione di “libertà condizionata” (verso l’esterno) dei selezionatori, può in parte spiegare perché questo film scritto con il sangue e con le lacrime non sia stato messo in Concorso, dove avrebbe meritato di gareggiare per il Leone d’Oro.
Ma queste sono diatribe di critici giornalisti cinematografici, roba di nulla. Perché il film di Mimmo è un colpo al cuore, allo stomaco, al cervello. Sferrato con quella capacità di stare dentro le storie eppure lasciarle parlare da sé, solo grazie alla sua esperienza di un vissuto fatto di emigrazione, fabbrica,
La fabbrica dei tedeschi è la “maledetta” acciaieria ThyssenKrupp di Torino, quella che era ormai quasi dismessa quando un’esplosione, il 6 dicembre 2007, cancellò le vite di sette operai, Giuseppe De Masi, Angelo Laurino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò, Bruno Santino, Antonio Schiavone e Roberto Scola. Calopresti ricostruisce quella tragedia prima rievocando il dramma attraverso la rappresentazione degli attori, Valeria Golino, Monica Guerritore, Luca Lionello, Silvio Orlando, Rosalia Porcaro, Vincenzo Russo e Giuseppe Zeno, che impersonano i parenti delle vittime rievocando gli ultimi momenti in cui erano stati insieme. Poi lo spazio è dato dalla cronaca, dalle manifestazioni di rabbia e protesta, dai racconti dei familiari “veri”, storie di famiglie straziate delle perdite e dal dolore, vissuto però con una dignità rara che Calopresti sa restituire con le sue immagini fatte di dettagli di vita quotidiana, di oggetti e di frammenti di case (e di volti) di “vite normali”, dei piccoli sogni e dei grandi sacrifici raccontati. Infine il racconto dettagliato, terribile, di quella notte di fuoco e morte, da parte dei colleghi rimasti vivi da quell’inferno.
Calopresti non si nasconde dietro la macchina da presa, ma neppure invade il campo, dove la sua presenza è discreta, partecipe, sgomenta, commossa. Perché è di commozione viva che è fatto questo piccolo grande documentario che andrebbe proiettato a canali unificati sulle reti tv, come il messaggio di saluto di fine anno del Capo dello Stato. Osservi quei volti scavati dal dolore delle mogli, dei fratelli, degli amici e colleghi di lavoro, con la macchina da presa che non riesce, proprio non sa staccare da quel posto lì, davanti alla fabbrica della morte, dove i fiori circondano le foto dei 7 operai. Fino a quel lungo carrello struggente sulle note di Povera patria, di Franco Battiato che è insieme un urlo disperato e necessario. E quel viaggio in auto con la moglie di uno degli operati, con lei ripresa in primo piano a ripercorrere le strade che il marito faceva ogni giorno, verso quella città che nutre di piccoli sogni, con le montagne innevate sullo sfondo che si intravedono dietro al finestrino…. Momenti di grande cinema che sembra quasi voler esplodere nel vorticoso mèlo documentario che Mimmo ha realizzato con il cuore, più che con la testa. Con la voglia di sentire, di partecipare ai sentimenti più che di conoscere e curiosare nelle memorie. Uno sguardo lucido, fatto di lacrime che bagnano lo sguardo.