VENEZIA 70 – "Algunas Chicas", di Santiago Palavecino (Orizzonti)

algunas chicas
La presenza ossessiva dell'acqua, a livello visivo e sonoro, rispecchia la natura di Algunas chicas. Un’acqua sporca, poco ospitale, ma mai abbastanza profonda per immergercisi dentro. Un’acqua stagnante, malsana ma in fondo inoffensiva, che non riesce a sfuggire alla staticità che sembra imporsi

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algunas chicas di santiago palavecinoL’immagine del vuoto, del buco nero da cui sgorga inarrestabile il flusso di rifiuti è una delle fobie più radicate nell’uomo. Lo scarico del bagno che si ostina a riportare a galla ciò che dovrebbe sparire, il lavandino che non ingurgita il sangue, l’acqua putrida che sembra non voler scendere per lo scarico della vasca da bagno. L’impossibilità di liberarsi del peso dei propri fantasmi accomuna quattro donne: l’intrecciarsi dei loro drammi e segreti dà vita a una struttura narrativa complessa, dove realtà e sogno non possono essere scissi.

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Il riemergere del passato, dei segreti, di ciò che vorremmo nascondere è il sentimento alla base di Algunas chicas. La presenza costante dell’acqua, quasi ossessiva sia a livello visivo che sonoro, rispecchia in parte la natura stessa della pellicola. Un’acqua sporca, poco ospitale, ma mai abbastanza profonda per immergercisi dentro, per sprofondare e non vedere più la luce. È piuttosto un’acqua stagnante, malsana ma in fondo inoffensiva, che non riesce a sfuggire alla staticità che sembra imporsi. I movimenti della camera spesso cercano di replicare l’instabilità emotiva e psicologica delle protagoniste: un’immagine sporca, offuscata, che quasi nega agli occhi la loro funzione, animata da un moto oscillante e nervoso, accentuato durante sequenze di dialogo all’apparenza innocue ma che nascondono molto di più nei silenzi. Ma questo movimento incessante non viene incorporato dai personaggi, che dopo qualche spunto iniziale sembrano bloccarsi, in una staticità forse legata ai loro stessi traumi taciuti. La discrepanza fra ciò che Palavecino trasmette attraverso le immagini e ciò che effettivamente accade sullo schermo aumenta con il procedere del film: assistiamo a uno scollamento inesorabile, dove gli esili fili della trama cessano di intrecciarsi e si dirigono in direzioni discordanti o si piegano su se stessi. La mdp non riesce a cogliere l’essenza dei corpi e dei movimenti delle attrici. Anche nelle scene collettive essi appaiono statici, isolati e vuoti: il copioso sangue che viene versato durante il film sembra alieno a questi corpi, come provenisse da un’altra sorgente ben più profonda. Ciò che manca è la curiosità di recidere i polsi per sapere cosa c’è ne uscirà fuori. 

 

Ma tutto questo liquido non diventa mai una vera minaccia: l’acqua non arriva mai alla gola, il sangue non sporca abbastanza il viso. È proprio qui che Palavecino non raggiunge il pubblico: il suo film non straborda mai dallo schermo, non arriva a riempire gli occhi dello spettatore, ma rimane, quasi in maniera ostinata, all’interno di coordinate sicure ma prevedibili. Per questo motivo lo sguardo in macchina finale, lungi dallo scatenare uno scavalcamento emotivo, pone davanti al pubblico un vuoto che non è stato possibile colmare. 

 

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