A Balance, di Yujiro Harumoto e gli altri premi di Pingyao 2020

Il legal drama senza tribunali vincitore al PYIFF mette in discussione lo statuto dell’immagine e la figura del documentarista, padrone e giudice imparziale dell’inquadratura. Ecco tutti i premi

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Da qualche settimana è terminata la quarta edizione del Pingyao International Film Festival, kermesse creata da Jia Zhangke con la direzione artistica di Marco Müller. Un’edizione che, tra le varie sezioni, vedeva la presenza anche di autori italiani come Giorgio Diritti con il suo Volevo Nascondermi; Daniele Luchetti con Lacci; Carlo Hintermann con The Book of Vision e i fratelli De Serio con Spaccapietre, rimasti però a bocca asciutta. Tra i vincitori, premio della giuria, il film giapponese A Balance di Yujiro Harumoto, qui alla sua seconda opera dopo Going the distance.

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“A Balance tells a complex, sad, and unresolved story with seemingly unadorned brushstrokes, and the many subtle unexpected possibilities give this debut feature a rare sense of maturity and ambiguity.”

A Balance è un legal drama senza tribunali, dove la ricerca della verità viene affidata ad una documentarista che, tramite delle interviste ai protagonisti della vicenda, cerca di risolvere il caso di Hiromi che si è suicidata per la scoperta della sua frequentazione con un professore dell’istituto di musica in cui studiava. Per la documentarista Yuko Kinoshita (interpretata da Kumi Takiuchi) l’imparzialità è fondamentale, come per un giudice, ma a sue spese scoprirà che non è sempre facile rimanere in disparte come una “mosca sul muro”, definizione che anche il Maestro del documentario Frederick Wiseman ha spesso dichiarato di rifiutare. Sarà lei stessa, anzi, quando la vicenda che sta seguendo andrà a toccare il personale, facendole scoprire il terribile segreto che nasconde il padre, che cercherà di modificare l’ordine degli eventi secondo aborti illegali e quel re-edit alla narrazione che viene più volte imposto dalla produzione alla regista.

Il film di Harumoto si scaglia, come fa e ha sempre fatto il cinema orientale a partire da Nagisa Oshima con il suo capolavoro Kôshikei (L’impiccagione, 1968) fino ad arrivare all’ultimo film di Kore’eda uscito in Italia The Third Murder (Il terzo omicidio, 2017), contro quella società incapace di perdonare e che manovra l’informazione a proprio piacimento. Harumoto crea e traccia una linea teorica, dietro al film, dove, oltre a mettere in discussione la figura stessa del documentarista, per cui è forse impossibile essere imparziali, mette in discussione lo statuto stesso dell’immagine empirica che sembra testimone del reale, ma che tramite le varie modificazioni subite finisce per allontanarsi integralmente dall’oggettività e la razionalità della questione. L’immagine stessa assolve al compito di giudice di quel tribunale inesistente e testimonia al pubblico la caducità della verità nell’era della falsa informazione. Quella verità che lentamente verrà soffocata fuoricampo.
Il lavoro strutturale del regista, che esplode nel finale, risulta la cosa più centrata da parte di Harumoto, ex assistente alla regia di quella Shociku che produceva i film proprio di Oshima; per il resto, il film si abbandona ad una durata forse troppo eccessiva e ad una messa in scena classica e poco sorprendente.

Gli altri premiati di questa 4a edizione del Pingyao International Film Festival, arricchita dall’importante retrospettiva dedicata alla new wave serba curata da Miroljub Vučković e Marco Müller, sono stati Kitoboy di Philipp Yuryev, come miglior film; Asia dell’israeliano Ruthy Pribar, che ha vinto la menzione speciale e Oasis di Ivan Ikić che ha vinto il premio alla miglior regia. Per la sezione Hidden Dragons, dedicata ai giovani cineasti cinesi emergenti, vincono come miglior film Mama di Li Dongmei; come miglior regia The best is yet to come di Wang Jing e Summer Blur di Han Shuai che porta a casa il premio della giuria.

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