#Berlinale68 – Strategie di resistenza

Pur senza un discorso unitario, quest’ultimo festival di Berlino ha lasciato varie illuminazioni, raccontando le possibilità di sopravvivenza di un’idea politica di cinema

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Cosa resta di questa 68a Berlinale, a parte i premi e il quanto meno opinabile Orso d’oro a Touch Me Not? Il film di Adina Pintilie sembra essere riuscito a innescare, tranne poche eccezioni, un rifiuto immediato, quasi a conferma della distanza professata dal titolo. Eppure questo premio apre una serie di questioni interesanti. Non tanto su una presunta rinvincita femminile sull’onda del #metoo (confermata tra l’altro dal Premio della Giuria a Malgorzata Szumowska per il suo Mug), quanto sul peso specifico ormai acquisito dal cinema rumeno, di sicuro non uniforme per presupposti e risultati (tra Touch Me Not e l’ultimo folle e straordinario Infinite Football di Corneliu Porumboiu corre una distanza infinita), ma comunque capace di smuovere dal profondo il panorama internazionale. Da ricordare che alla Pintilie va anche il premio per la miglior opera prima, assegnato da una giuria presieduta dal connazionale Calin Peter Netzer che proprio a Berlino aveva vinto alcuni anni fa con Il caso Kerenes. Ma che sia un tributo a una cinematografia nazionale nella sua epoca d’oro o un partito preso a tavolino, quest’Orso racconta solo in minima parte una Berlinale che non ha fatto mancare le sue illuminazioni, pur smarrendo la capacità di costruire un discorso coerente e unitario.

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adina-pintilieDi certo non è facile, vista la smisurata programmazione e tante sezioni autonome che perseguono il loro percorso particolare – a parte le ormai classiche Forum e Panorama, a loro volta suddivise in sottosezioni, ci sono Generation, Berlinale Shorts, la Perspektive Deutsches Kino, poi la nuova Berlinale Series, la sezione NATIVe, Kulinarishes Kino, in cui è passato, tra le altre cose, il tenerissimo Ramen Teh di Eric Khoo… Ogni percorso ha la sua storia e i suoi interessi. Ma nonostante le differenze, lo scorso anno era emerso un afflato “politico” condiviso. La Berlinale 67 aveva intercettato una rabbia montante, un’insofferenza rispetto allo stato di cose, che da un lato recuperava le ipotesi di lotta e rivolta del passato (I’m Not Your Negro, Il giovane Karl Marx, No intenso agora), dall’altro incendiava il presente con furia selvaggia (Logan) o con parabole di fratellanza utopica (Kaurismäki). Tutto questo vento di rivolta, ora, si spegne nella dolente e potentissima parte finale di Season of the Devil, l’ultimo film “cantato” di Lav Diaz, che sembra lasciar bruciare ogni traccia di umanità residua, ogni germoglio di libertà o rivolta contro la mostruosità bifronte del Potere, contro l’oppressione armata e lo sfruttamento sistematico dei più deboli. Una parabola che racconta il passato della dittatura militare della fine degli anni ’70, ma che in qualche modo si proietta in una dimensione temporale universale, al punto che accanto alle tracce della propria mitografia personale, Lav Diaz più che mai recupera un’iconografia religiosa evangelica. Questa Stagione del Diavolo è fatta di crocifissi, madonne e santi smarriti nella giungla, lasciati alla polvere della Storia che tutto ricopre e divora. Non c’è rassegnazione, ma la speranza di un’umanità rinnovata e liberata è proiettata in un altro tempo, molto al di là da venire, che può essere solo invocato dalle note di questa liturgia infinita che oppone il magico alla desolazione di una realtà dove non c’è spazio per l’azione e tanto meno per la poesia.

dovlatovTempi bui per la parola. Lo sa bene Aleksej German Jr, che incrocia cinque giorni “qualsiasi” della vita di Sergej Dovlatov e racconta di un altro scrittore impotente di fronte alla granitica, spietata indifferenza delle istituzioni. Ma c’è una magnifica scena che resta impressa, pur nella sua apparente innocuità. È la lunga sequenza del tram, quando lo scrittore spiantato comincia a rispondere a un signore seduto alle sue spalle, che inveisce, in puro stile propaganda, contro Golda Meir e i sionisti. “È anche colpa degli impressionisti”, ribatte Dovlatov con un sorriso beffardo. E, dopo qualche istante, “dei decadentisti”. E così di seguito, per qualche minuto, fino a chiamare in causa “gli astrattisti”. Finché si arriva alla fermata di quest’ennesimo, incredibile piano sequenza… ecco, in un colpo solo, si fa piazza pulita di tutti gli “-isti”, di tutte le catalogazioni, le formule, gli stereotipi, le rivendicazioni di appartenenza. Dovlatov, più che un dissidente, è un inguaribile clandestino che vive le sue passioni al mercato nero e le sue amicizie “pericolose” con una straordinaria strategia di resistenza ironica. Un uomo che persegue la sua integrità nonostante le crisi personali e le censure di regime, ma fuori dai proclami e dalle ideologie, in equilibrio tra le esigenze materiali della sopravvivenza e la necessità morale di una fedeltà a se stessi. La sua figura è la migliore risposta alle sterili polemiche di chi accusa German di aver portato a compimento il film con finanziamenti istituzionali e aver così “tradito” la memoria del padre, sempre in rotta con il regime. Erano altri tempi, senz’altro. Ma soprattutto viene da sorridere pensando a tutti quei film, in particolare italiani, che vivono quasi sempre di implicazioni ministeriali e che non hanno il coraggio neppure di sfiorare la libertà di questo cinema che sembra sempre spingere la forma fino a un punto limite, oltre lo schermo, incontinente e incontenibile.

the rare eventSì, oltre lo schermo, oltre la gabbia dell’inquadratura, le griglie della struttura, oltre l’apparato di produzione con le sue imposizioni e i suoi meccanismi. È questo che accomuna il fim di German ad altre visioni di questa Berlinale. A cominciare ovviamente da Unsane, l’iPhone movie di Steven Soderbergh che, dietro la maschera del genere, usa il pretesto produttivo come dichiarazione teorica, per poi ragionare sulla consistenza stessa dell’immagine di oggi, su questa intricata tensione tra la liberazione e la coercizione. Tensione che si riflette in Profile, sebbene Timur Bekmambetov sia più affascinato dalle potenzialità narrative e spettacolari del nuovo universo multimedia e social. E nella metafora di Isle of Dogs di Wes Anderson, film di gioiosa cupezza, che scopre l’anello mancante tra Esopo e Otomo e affida a quei cani che si muovono a passo uno l’ultima scintilla di vitalità e passione per un mondo “inquadrato” e indottrinato. C’è ancora futuro. Tra sogni folli di cambiare le regole del gioco, come il Laurentiu di Infinite Football che inventa la sua “utopia politica”. E strategie di resistenza che oppongano un’opacità alla trasparenza assoluta o magari una deformazione da optical art della percezione media, neutrale, del dato visivo, come in The Rare Event di Ben Rivers e Ben Russell, stralcio precario di un summit filosofico a margine di Lyotard. Tutto a lato delle cose, insomma, ma con la capacità di penetrale e vivificarle con l’eccezione di un’idea, di uno sguardo singolare (come il tratto di matita di John Callahan), di attraversarle col segno vitale della propria presenza, come sa bene Kazuhiro Soda, che con il suo Inland Sea, mostra la toccante soggettiva dei suoi observational films.

grassEcco, queste forme di resistenza nei confronti dell’immagine bloccata, del blocco compatto, indifferenziato delle immagini, testimoniano le possibilità di sopravvivenza di un’idea politica di cinema. Politica degli autori oltre gli autori, oltre le fascinazioni dello stile, della bella immagine, dell’intelligenza esibita. Politica che vive anche di sentimenti, di emozioni pure, di verità di rapporti, di tutto ciò che di autentico ancora attraversa il cuore, lo stomaco, la testa. Ci sembrano ipotesi decisamente più appassionanti di altri approcci, come la cinefilia rigorosa e nostalgica, seppur sincera, di Mes provinciales di Jean Paul Civeyrac, che sembra non contemplare l’eresia, altro che non sia già stato consegnato ai libri di storia o alla purezza cristallina di un canone estetico, cinematografico e letterario. O come l’estenuante dimostrazione filosofica di Philip Gröning, che a un certo punto impone un’accelerazione narrativa (prevedibile) ai pur affascinanti tempi sospesi di My Brother’s Name Is Robert and He Is an Idiot. L’incesto e la violenza come scosse programmatiche che ripiombano nell’astratto della riflessione più inflessibile. Nonostante gli entusiasmi suscitati, resta la sensazione di un film programmatico, che riafferma, oltre i presupposti e le intenzioni, un’idea di sguardo impositivo, di un’autorialità cattedratica e istituzionale. La parte più vitale del cinema tedesco sembra scorrere altrove, in Transit di Petzold o nella magia del quotidiano di In the Aisles di Thomas Stuber. Mentre sul tempo, sulla sua ripetizione e differenza, sui conflitti che esplodono e si ricompongono nell’infinita connessione delle cose, Hong Sang-soo è su un altro pianeta. Pur nel gioco d’autore dei meccanismi narrativi e dei punti di osservazione che si incastrano e si confondono, in ogni singolo filo del suo Grass c’è una goccia di commozione che racconta un amore profondo, una partecipazione autentica per le storie e i personaggi, per tutta quella infinita trama di sentimenti che si son fatti pensiero, idee nutrite di vita vissuta.

an_elephant_sitting_still_stillAltri titoli interessanti, La prière di Cédric Khan, corpo a corpo con la fede e la resurrezione che pare guardare al Rossellini di Stromboli, Museo di Alonso Ruizpalacios che, invece, muovendosi tra l’iconoclastia e la riaffermazione di un’identità stuprata da una logica mercantile e colonialista, sembra più volte tirare in ballo Fellini. Già, il cinema italiano… qui a Berlino è tutto giocato tra il genere e l’ambientazione. Nonostante le intuizioni western e melodrammatiche di Laura Bispuri, Figlia mia sembra scontare lo scarto tra le interpretazioni di Alba Rorwacher e Valeria Golino e il contesto sardo, mentre le possibili fiammate della storia si stemperano in una specie di manifesto di liberazione femminista, dove per gli uomini non c’è posto, neanche nella messa a fuoco dell’inquadratura. La terra dell’abbastanza, esordio dei fratelli D’Innocenzo in Panorama, crea invece un’atmosfera noir intorno alle dinamiche criminali della periferia romana, luogo d’osservazione ormai privilegiato, quasi abusato. C’è dunque la sensazione del già visto, seppure i fratelli mostrano una misura che evita al film di scivolare nel derivativo o nella fascinazione compiaciuta dell’azione.

Un’ultima nota. An Elephant Sitting Still, titolo scorso sottotraccia forse, ma di cui si è parlato molto durante il festival. Un racconto generazionale di quattro ore ambientato nella Cina del Nord, esordio e purtroppo opera ultima di Hu Bo, morto suicida a ventinove anni, poco dopo aver completato il film. Per lui una menzione speciale come opera prima, dalla giuria composta da Calin Netzer, Jonas Carpignano, Noa Regev. Purtroppo noi di Sentieri non siamo riusciti a vederlo, rimbalzati da un’affollattissima e caotica proiezione al Delphi Palast. Speriamo di recuperaro presto.

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