Dostoevskij, di Fabio e Damiano D’Innocenzo

I fratelli si spingono al limite di quanto sia possibile permettersi nella serialità italiana. Tra shock calcolati e degrado esistenziale di superficie, non rimane nulla da vedere. Berlinale Special

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E’ una serie epistolare, questa dei fratelli D’Innocenzo: lascia lettere sulla scena del delitto il serial killer soprannominato Dostoevskij a cui dà la caccia lo “sbirro maledetto” Enzo Vitello (Filippo Timi, impagabile), il quale diventa chiaramente via via sempre più legato alla corrispondenza con l’assassino (“scrivimi ancora, ti capisco e ti leggo”, gli lascia scritto in risposta), e altri messaggi e missive se li scambiano tra di loro ripetutamente i protagonisti, i legami si costruiscono innanzitutto con la fascinazione per le parole, le confessioni, i manifesti di nichilismo in forma di monologo. Lascia una lettera alla figlia lo stesso Vitello, che incontriamo la prima volta mentre cerca di uccidersi ingerendo interi flaconi di pillole: verrà richiamato alla sopravvivenza dalla telefonata che gli annuncia il primo degli omicidi di Dostoevskij e così, da non morto, letterale revenant che si autoinduce il vomito per rimandare la propria morte ad un’altra occasione, attraversa l’intera vicenda. Le epistole del killer sono d’altronde descrizioni degli istanti subito precedenti la dipartita delle vittime, e tutta la serie sembra volta a cogliere quella stessa condizione di pre-morte, questa sensazione diffusa su ogni cosa del lasciarsi andare all’oscurità in maniera definitiva, di abbandono rassegnato delle forze: con la fotografia a tratti pazzescamente buia di Matteo Cocco, e una galleria di istantanee desolate di una provincia romana mai così arrugginita, Fabio e Damiano D’Innocenzo spingono fino al limite e probabilmente anche oltre quello che è possibile permettersi oggi tra le maglie della produzione televisiva italiana. Ma tornando alla metafora epistolare, a chi possono mai davvero essere destinate queste sei lettere firmate dai fratelli?

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Cercando di non fare caso ai dialoghi di profondità tardoadolescenziale spacciata per esistenzialismo hard boiled (o è forse un omaggio a una certa vena cannibale della letteratura nera nostrana?), ci si ritrova davanti sei episodi in cui la coppia di autori porta avanti una narrazione rarefatta, briciole di una storia oramai dissolta, abissi senza speranza dentro questa messinscena obiettivamente ipnotica della perniciosità che si infiltra tra i paesini disabitati e le baracche di campagna.

Sin dalla colonscopia a cui assistiamo alla fine del primo episodio, ci è subito chiaro come la vera indagine non sia sull’assassino quanto quella sull’oscurità nell’anima del personaggio di Filippo Timi (compreso il plot twist che, come da manuale della struttura seriale, arriva a sconvolgere lo spettatore alla fine della quarta puntata) – tra il suo passato e quello di Dostoevskij ci sono delle affinità che, anche stavolta come in Favolacce, hanno radici nel mondo dell’infanzia, dei mentori, di una genitorialità problematica. E, di nuovo alla stregua delle prove registiche precedenti, i fratelli imbastiscono anche qui la loro abituale galleria degli orrori domestici e sociali, degrado familiare, atrocità assortite (almeno una lunga sequenza di tortura particolarmente efferata), un’umanità lercia colta nella disperazione della propria decadenza quotidiana – accade alla galleria dei coprotagonisti (Gabriel Montesi, Federico Vanni, va detto, tutti caratterizzati con notevole attenzione), alle storie delle vittime del killer, a tutti i personaggi che Vitello incontra ed interroga per stanare l’assassino. Una sensazione di inadeguatezza orchestrata per contagiare irrimediabilmente anche chi guarda (ai soliti elenchi di reference di autori “ad effetto” tipo Seidl ecc aggiungeremmo qualche titolo di Claire Denis di quelli più “scandalosi” prima maniera).

Ecco, il dilemma sullo sguardo di Fabio e Damiano D’Innocenzo rimane irrisolto, anzi si rinnova: questi sfoghi autoriali affogati nella crudeltà sono espressione di un disagio profondo, di una precisa presa di posizione morale ed estetica, o si tratta piuttosto di shock calibrati con una certa furbizia, di fredde provocazioni che giocano con lo squallore e le aberrazioni calcolate per un compiaciuto disgusto? Qualcuno direbbe che il problema non si pone, o che al giorno d’oggi non esiste più differenza. Probabilmente è così. Quello che sappiamo è che, nonostante le sequenze esplicite e i vari confronti isterici in pianosequenza tra Vitello e la figlia, tra una scena di notte al buio e una delle tante architetture in rovina visitate dalla serie, anche stavolta episodio dopo episodio non rimane niente da vedere.

La valutazione della serie di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
3.89 (19 voti)
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