Hunger Games. La ballata dell’usignolo e del serpente, di Francis Lawrence

Tra i contadini Fordiani e femme fatale, Lawrence firma il capitolo più cinefilo della saga e riscopre le radici della distopia nella tradizione americana. Ma la sua presa è debole e il passo incerto

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Tornare indietro per raccontare l’inizio di una storia, ma anche per riprendere le misure di un’idea di cinema finora solo afferrata. Ci sarebbe in effetti da spendere qualche parola sulla regia di Francis Lawrence, che di film della saga di Hunger Games ne ha diretti tre su quattro e l’ha fatto con un approccio stranissimo, affascinato più dai toni opprimenti della distopia che dal puro dinamismo degli scontri nell’arena. Ne è venuto fuori un franchise per ragazzi raccontato però con toni adulti, magniloquente, dalla messa in scena straordinariamente controllata ma forse anche irrisolta, che sottotraccia, negli anni, ha provato a trovare la quadra tornando negli spazi della saga.

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E pare davvero un progetto funzionale in questo senso questo Hunger Games. La ballata dell’usignolo e del serpente, a partire, forse, proprio dal peso, tutto sommato minore riservato all’elemento del gioco al massacro. Perché agli Hunger Games veri e propri (i decimi), questo prequel della saga principale dedica solo una minima porzione del racconto. È lì che Lucy Gray Bard, giovane ribelle costretta a partecipare ai Giochi incontra Coriolanus Snow, ventenne rampollo di una famiglia di nobili decaduta che diverrà la sua guida nell’Arena. Quando Lucy vincerà gli Hunger Games anche grazie a lui, Snow vedrà l’evento come l’occasione per ridare dignità e potere alla sua famiglia. Prima, però, dovrà affrontare congiure di palazzo, esili e dovrà capire fin dove vorrà spingersi per ottenere ciò che vuole.

Davvero non si nasconde più, Lawrence ed il minor focus dedicato alle sequenze nell’arena quasi gli offre la scusa perfetta per lasciare molto del lavoro sull’action solo abbozzato. Sfiora soltanto certi affascinanti spunti che avrebbero meritato ben altro approfondimento (come la gamification della competizione), ma anche certi exploit che avrebbero potuto ravvivare un racconto degli scontri che non sembra mai voler non sfruttare il potenziale “d’assedio” del luogo, i pertugi, i tunnel, le stanze con un solo ingresso. Ma è prevedibile, il fulcro di Hunger Games forse non è mai stato davvero nell’arena, almeno per Lawrence.

Forse anzi, il film svela con straordinaria precisione la lettura culturalista della saga della Collins, il tentativo di portare alla luce quanto l’elemento distopico della serie, con tutto il carico di arrivismo, crudeltà, lotta di classe e dispotismo sia connaturato non solo alla natura umana ma, forse soprattutto, ad una forma mentis tutta americana che viene da lontano. 

A Hunger Games. La Ballata dell’usignolo e del serpente fa forse buon gioco questo strano modo di rapportarsi al tempo, di raccontare una storia ambientata in un futuro che però è passato rispetto alla timeline principale. E allora può capitare che nell’arena finiscano per combattere contadini armati di forcone che sembrano usciti da un romanzo di Steinbeck o che Lucy Gray Bard canti canzoni folk con un piglio tra lo spiritual ed il blues dei primi del ‘900. In prospettiva pare in effetti il perfetto punto d’arrivo della regia dotta (per quanto a grana grossa) di Lawrence, il tentativo, da parte del regista, di doppiare i discorsi del romanzo cercando nel visivo elementi che lo leghino ad un immaginario tutto americano, teso tra lo sguardo disperato dei diseredati di Furore di Ford, i tratti di un melò sull’amore impossibile tra i due protagonisti ed un epilogo che esonda nel noir puro, con la protagonista che non nasconde il suo ruolo di femme fatale.

È un discorso lucidissimo, quello di Lawrence, peccato che sulla lunga distanza fatichi a stargli davvero dietro. È forse in primis un problema di cast, con Rachel Zegler evidentemente molto più pronta ad assecondare le linee dello script, a portarne in primo piano la cinefilia rispetto ad un Tom Blyth efficace soprattutto nei passaggi più introspettivi ma che a fatica regge il peso della co-protagonista.

Privo di veri appoggi il film si illumina solo a tratti, dunque e per il resto si adagia su uno sviluppo in realtà sempre più faticoso, prigioniero di una scrittura farraginosa e di un passo ondivago, che pare incapace di afferrare il senso del racconto nel suo insieme. E a farne le spese è soprattutto il ritmo della narrazione, sfilacciato, concentrato sulle tempeste sentimentali che coinvolgono i due protagonisti più che sui giochi di palazzo, dalle congiure, dall’ascesa di Snow riassunti frettolosamente, troppo, quasi senza fiato.

È finalmente arrivato al film che voleva forse fare fin dall’inizio, Francis Lawrence ma l’ha fatto con la foga dell’appassionato, più che con la preparazione dell’autore. E allora il suo sembra soprattutto un gioco laboratoriale, chiarissimo, colto, ma anche senza peso, a cui, sulla lunga distanza, fatica forse persino lui a credere.

 

Titolo originale: Hunger Games – The Ballad Of Snakes And Songbirds
Regia: Francis Lawrence

Interpreti: Rachel Zegler, Tom Blyth, Peter Dinklage, Viola Davis, Hunter Schafer,  Laurel Marsden, Jason Schwartzman, Ashley Liao, Josh Andrés Rivera, Sofia Sanchez, Kjell Brutscheidt
Distribuzione: Notorious Pictures
Durata: 165’
Origine: USA, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
1.77 (13 voti)
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