"La bella società", di Gian Paolo Cugno
La bella società è un film multidirezionale che non riesce a trovare un proprio baricentro di stabilità, che ondeggia tra l’affresco storico e la storia privata dei due protagonisti, tra il melodramma e il cinema di costume alla Pietro Germi, ma non c’è sintesi tra queste sue anime ed emerge con fatica dalla sovraesposizione narrativa alla quale si è volontariamente esposto.
Un film multidirezionale che non trasforma questa caratteristica in un pregio, non riuscendo a trovare un proprio baricentro di stabilità, che ondeggia sempre tra l’affresco storico e la storia privata dei due protagonisti, tra il melodramma e il cinema di costume alla Pietro Germi. Ma La bella società non trova mai una degna sintesi tra queste sue anime ed emerge, dalla sovraesposizione narrativa alla quale si è volontariamente esposto, con fatica e senza un proprio profilo perduto nella superfetazione successiva di una trama tanto complicata (non complessa) quanto perdutamente posticcia. Altri esiti aveva avuto Cugno nel suo precedente film d’esordio Salvatore – Questa è la vita.
Non è sufficiente mettere in fila dieci bandiere rosse per raccontare gli anni settanta, così come non è sufficiente fare gridare trenta contadini contro la polizia per dare conto delle lotte contadine al sud. I grandi avvenimenti della storia non permettono di essere liquidati con i soliti rimedi narrativi, pretendono il tempo che devono pretendere se si chiede loro di essere parte sostanziale della vicenda.
Su questo versante narrativo e drammaturgico il film perde la bussola quando affastella storie e avvenimenti (ci sono di mezzo anche i vecchi genitori di Romolo che cercano un posto dove piangere il figlio che sanno essere morto e che presidiano la casa di Giuseppe e Giorgio) per scoprire, alla fine, che forse il suo baricentro era il legame di sangue tra i due fratelli. La gelosia morbosa di Giuseppe che vede andare via Giorgio a Torino in compagnia della donna conosciuta in quella città (e qui ci sarebbe da raccontare quest’altra deriva narrativa), il rapporto eccessivo e possessivo che nella iconografia cinematografica, che speravamo fosse ormai scomparsa, delinea i rapporti familiari dei personaggi meridionali qui domina le ultime scene del film. Ma il sospetto che il film voglia anche essere un atto d’accusa contro le devianze politiche e sociali del nostro Paese ci viene quando, alla fine, ci si sofferma a chiedersi quale sia l’esatta collocazione del titolo all’interno del film.
Un capitolo a parte va dedicato agli attori alcuni dei quali puntellano, con il proprio carisma, i vuoti (il troppo pieno) del film. Su tutti Raul Bova che dopo La nostra vita rivediamo in una forma sempre più completa, David Coco che sembra destinato a non potere varcare i confini della Sicilia, quando avrebbe numeri e volto non solo da siciliano, Giancarlo Giannini nel suo delizioso accento siciliano da ligure doc. La lista per amore di patria si ferma qui.
Regia: Gian Paolo Cugno
Interpreti: Giancarlo Giannini, Franco Interlenghi, Antonella Lualdi, Enrico Lo Verso, Raul Bova, Maria Grazia Cucinotta, David Coco, Marco Bocci
Distribuzione: Medusa
Durata: 112’
Origine: Italia 2010