L’homme d’argile, di Anaïs Tellenne

Opera prima che ragiona in maniera lucida sull’influenza dello sguardo d’artista sul proprio soggetto. Struggente la prova di Raphaël Thiéry. Una piacevole scoperta. VENEZIA80. Orizzonti Extra

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Artista, opera e soggetto. È tutta una questione di sguardi. Ma cosa resta dello sguardo dell’artista che si è posato sul soggetto? Cosa si nasconde dietro un’opera d’arte? Sono queste le domande che si pone Anaïs Tellenne, al suo primo lungometraggio da regista. L’homme d’argile racconta la storia di Raphaël (Raphaël Thiéry), un uomo con un occhio solo e dalla statura imponente che lavora come custode di una maestosa villa disabitata. Prossimo ai sessant’anni, vive con la madre in una piccola casa nei pressi della villa. Le sue giornate scorrono tranquille tra la caccia alle talpe, la pratica con la cornamusa e le occasionali scappatelle con la postina. Durante una notte tempestosa si presenta inaspettatamente l’affascinante Garance (Emmanuelle Devos), l’erede della tenuta, nonché artista concettuale parigina.

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Negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere la fisicità eccezionale e lo sguardo di ghiaccio di Raphaël Thiéry in Le vele scarlatte di Pietro Marcello e, proprio in questi giorni al Lido, in Povere creature! di Yorgos Lanthimos. Un viso marcato nelle sue imperfezioni che può trasmettere tanto; malinconia, durezza, tenerezza. La regista sfrutta a pieno le doti naturali del protagonista per trascinarci nel suo immaginario prima umile e semplice, poi più complesso e stratificato. Raphaël non aveva mai conosciuto l’amore, forse non si era neanche mai posto il problema. L’arrivo di Garance squarcia l’equilibrio che si era creato permettendogli di affacciarsi sul mondo e osservarlo con uno sguardo nuovo, anche se incompleto. Garance riesce a vedere aldilà della superficie, scorge la sensibilità che si nasconde in quell’occhio umido e in quel corpo granitico, o meglio, argilloso. Se tutti gli altri abitanti del paese lo vedono come un golem, lei ci vede un “paesaggio”, anche se in tutta onestà la madre non riuscirebbe a vederlo su una cartolina. L’artista sente il bisogno di proiettare queste sensazioni su una statua di argilla che diventa ben presto oggetto feticcio/transazionale e rappresentazione fisica del loro legame.

Il rapporto tra musa e artista può essere davvero potente, soprattutto se, come in questo caso, lo sguardo si proietta dall’alto in basso in maniera totalmente disuguale. Nonostante la profonda sensibilità artistica di Garance, si tratta di due individui di estrazione socioculturale completamente diversa. Una distanza difficile da colmare. Il quesito che si pone la regista è lo stesso che ci si potrebbe porre quando si parla di cinema documentario o cinema del reale. Che effetto ha lo sguardo dell’autore sul soggetto ripreso? Cosa resta di questa dinamica di potere univoca soggetto/oggetto?

La regista gestisce in maniera impeccabile le fasi di innamoramento di Raphaël alternando campi medi e primi piani del suo corpo in trasformazione. L’homme d’argile colpisce ed emoziona nei momenti in cui il protagonista si mette realmente a nudo e si apre utilizzando la musica come mezzo di espressione. Capita raramente di osservare il percorso di un personaggio così complesso raccontato in maniera così toccante, senza dover fare uso di assurdi stratagemmi narrativi o improbabili svolte inaspettate. Si tratta di un film piccolo ma molto significativo, una scoperta piacevole e inaspettata.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
5 (2 voti)
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