Macchine Mortali, di Christian Rivers

Il cinema sopravvive come puro spettro di un edificio da abitare, impalcatura vuota da invadere con creature da un’altra dimensione narrativa. Produce Peter Jackson, dai romanzi di Philip Reeve

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Difficile riprendersi da La battaglia delle cinque armate: lo stiamo cercando di fare da 4 anni (continuo a pensare che sia un riferimento imprescindibile anche per gli ultimi Russo Bros), e nel frattempo le battaglie al cinema (e su tutti gli altri schermi…) si sono fatte sempre più espanse ed affollate – in questo, l’esordio di Christian Rivers, per decenni collaboratore stretto di Peter Jackson, sembra spartire con il Warcraft di Duncan Jones il tentativo di schierare sullo scacchiere della guerra pedine provenienti da quanti più universi possibili, per incrociarne destini, rimandi e riferimenti. Quasi per l’appunto a voler rilanciare sulla sterminata visione jacksoniana. Come Warcraft, Macchine Mortali sembra già pronto ad andare fortissimo sul mercato asiatico, tanto che un regista più attento ne avrebbe probabilmente acuito in maniera ancora maggiore il côté da megaproduzione fantasy cinese imperiale (lo Zhang Yimou terrapiattista di The great wall non è forse così lontano da qui…).
La domanda da farsi resta sempre di più quella su che posizione abbia lo spettatore dentro questo turbinio a velocità spasmodica di traiettorie, innesti, personaggi e rispettivi cenni biografici, ma farsela significa già dichiararsi estranei proprio a quel tipo di spettatore, quello che mastica linguaggi provenienti da RPG e mitologia steampunk alla stessa velocità con cui sa riconoscere gli omaggi alle Sacre Scritture di Star WarsMad Max, o addirittura Avatar.

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Il cinema sopravvive allora qui come puro spettro di un edificio da abitare, impalcatura vuota da invadere con creature da un’altra dimensione narrativa, visione ad altezza Waterworld, Giochi di Morte o Barry Sonnenfeld da innervare di un sovraccarico di sentimento tra le figure che la abitano: e però bisogna trovare anche lo spazio tra le macchine volanti nei cieli e la terra, e il tempo tra un flashback e una rivelazione, per far sì che questi benedetti ragazzi si innamorino, si ricongiungano ai mentori e ai padri, si ribellino, si abbandonino e così via.
Rivers sbanda assai a cercare di tenere insieme tutte le giravolte dei romanzi di Philip Reeve, personaggi come Anna Fang e Katherine Valentine finiscono dolorosamente sacrificati all’altare dell’equilibrio dello spettacolo, e la scintilla più umana viene fuori alla fine dal rapporto tra l’eroina Hester (sfregiata in volto, cosa ne dirà il BFI e la sua campagna contro i personaggi con cicatrici sulla faccia?) e il suo guardiano Shrike (creatura zombie-cyborg dalla resa non proprio memorabile, ma per fortuna animato dall’immenso Stephen Lang).

In mezzo ad una baraonda che così confusa non si vedeva dal Lone Ranger di Verbinski (per citare un altro tentativo di giocare ai Pirates ma sulla terra ferma), non avrebbe guastato un po’ di ironia, ma l’inquadratura non aveva letteralmente spazio per la spalla comica.
Resta allora la resa prettamente scenografica di questa Londra, macchina mortale “trazionista” che “ha sbagliato a venire in Europa” (!), sorta di recupero della tradizione inglese del mystery play su carri itineranti trasformato in gigantesco veicolo su ruote a cui non è data possibilità di fermarsi, governato all’interno da livelli ferrei di classi sociali e da un’economia che smercia pezzi di old tech (la vecchia tecnologia meccanica). Una trovata che alla lontana potrebbe ricordare lo Snowpiercer di Bong Joon-Ho, ma come se fosse stato diretto da Paul WS Anderson.

Titolo originale: Mortal Engines
Regia: Christian Rivers
Interpreti: Robert Sheehan, Hera Hilmar, Stephen Lang, Hugo Weaving, Ronan Raftery, Jihae, Leila George, Patrick Malahide, Yoson An, Colin Salmon, Regé-Jean Page, Mark Hadlow
Distribuzione: Universal
Durata: 128′
Origine: USA, Nuova Zelanda, 2018

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