MMXX, di Cristi Puiu

Visto al festival di San Sebastian, è il grande assente dalle classifiche dei film dell’anno, gli amanti del cinema rumeno gli preferiscono Jude: ma se fosse questa la vera messinscena della fine?

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Grande assente dalle classifiche di fine anno dei cinephiles, l’ultimo film di Cristi Puiu “soffre” l’aver ricevuto una visibilità limitata (si è visto a settembre a San Sebastian) e la presenza in parecchie “top” del connazionale Radu Jude con il suo Don’t expect too much from the end of the world – la linea oltranzista rumena contro quella pop e post-post-moderna, insomma: e se invece fosse proprio Cristi Puiu ad averla già vista, la “fine del mondo”, e ad averla messa in scena con questo MMXX?
Come ancora in Jude ma per Sesso sfortunato e follie porno, l’ambientazione da cui il film prende le mosse è l’epoca pandemica di qualche anno fa (il riferimento al 2020 in numeri romani sottolinea quanto in effetti il periodo del lockdown ci sembri già lontano intere ere storiche, tanto da essere scritto in caratteri “antichi”), e la prima conseguenza, al di là di quella produttiva di un’opera davvero piccola e minimale in confronto alle ampissime strutture dei titoli precedenti, è che spariscono gli “assembramenti”, come li chiamavamo durante il coprifuoco (ve lo ricordate?).
Come riconfigurare un cinema come quello di Puiu che, quantomeno negli ultimi due Sieranevada e Malmkrog, si nutriva di tavolate infinite, conversazioni fluviali intrecciate tra nugoli di personaggi che si muovono sotto lo stesso tetto? Nella grande rimozione in atto intorno a tutto quello che riguarda i nostri mesi di quarantena generalizzata, è già un segnale importante che in un film del cineasta rumeno non ci si riesca a districare dall’incastro delle scene a due, dove i personaggi coinvolti nel dialogo si affidano a ricette rituali, a una serie di questionari prestabiliti, siano essi un test di psicoterapia, l’interrogatorio di un detective, o una telefonata dall’ospedale mentre – come tutti durate il lockdown – c’è sempre un dolce da preparare sperimentando in cucina. È davvero un caso che l’unica sequenza che coinvolge un numero più ampio di esseri umani sia il funerale che chiude il film?

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La forma-chiave sembra qui essere allora quella della confessione impossibile, perennemente negata, ostacolata, interrotta: Puiu alterna impietosi pianosequenza con segmenti affidati ad un montaggio veloce e macchina a mano, ma in ognuno dei casi la possibilità che i personaggi in scena possano instaurare una connessione che permetta loro di aprirsi davvero appare fallace, evanescente, come la telefonata assurda di Baba au rhum, il secondo episodio che è forse quello più straordinario del lotto, probabilmente una delle vette in assoluto del cinema che si è fatto racconto della nostra quotidianità durante l’epidemia da COVID. La realtà esterna è dall’altro lato del telefono, in un ospedale in piena emergenza da pandemia dove una donna è ricoverata all’ottavo mese, ma nell’appartamento della sorella le camere e gli spazi sembrano restringersi ed allargarsi a seconda della concitazione del momento, i tre personaggi attraversano la scena che si fa via via ingombra di oggetti e insieme di fuoriuscite, di crepe: una perfetta rappresentazione “esplosa” delle camere dell’inconscio collettivo dentro cui siamo piombati tutti quanti durante il nostro confinamento domestico del quale ognuno di noi cerca disperatamente di dimenticarsi, anno domini MMXX.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
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