Occhio per occhio, di Takashi Miike

La prima serie coreana di Miike è l’ennesima variazione di uno spartito che muta senza mai cambiare. Era solo questione di tempo prima che il suo genio conquistasse anche la Corea. Su Disney+

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Era solo questione di tempo prima che un artista ultrabulimico come Takashi Miike si avventurasse nell’orizzonte industriale sudcoreano. Quella capacità – che solo lui e pochi altri possiedono – di giocare con i canoni più storicamente codificati del genere e di sovvertirli attraverso lo stilema della contaminazione, riflette già di per sé una predisposizione naturale alla traduzione transnazionale, che ha nelle coordinate della cinematografia più votata alle strutture di genere (appunto, quella coreana) il suo controcampo ideale. Ma come ha dimostrato il connazionale Kore-eda con Broker, tale traslazione di codici e immaginari può funzionare solamente se implica alla base un ragionamento sistematico sul significato di questo incontro/scontro di identità filmiche. Cosa che Occhio per occhio puntualmente ribadisce. E non solo. In questa serie Miike va anche oltre. Perché scardina ogni preconcetto dato, ogni situazione liminale. Per delineare un racconto che sia connaturato alla sua visione poetica, senza dimenticare nel contempo l’orizzonte di riferimento in cui si origina.

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E questa contaminazione di sguardi e marche produttive Miike la traduce anche a livello tematico. Come in un classico prodotto coreano in stile Nido di vipere o Tomb of the River, anche qui è la parabola di vendetta a dominare l’intreccio di violenza e sadismo. Occhio per occhio parte infatti da Dong-soo (Jung Hae-in) un ragazzo solitario e schivo, che aspira a vivere un’esistenza tranquilla. All’apparenza trascorre una vita “normale”, ma in profondità nasconde un segreto: è un “Connect”, un ibrido di organismo e elementi bio-tecnologici che lo rendono immune a qualsiasi ferita e colpo mortale. Un giorno però viene rapito da un gruppo di trafficanti di organi, che gli asportano l’occhio destro per venderlo al miglior offerente. Ma non sa che il destinatario della “merce” è il serial-killer Jin-seok (Go Kyung-pyo), a cui legherà non solo la sua traiettoria di vendetta, ma qualcosa di più intimo, interno alla sua stessa persona: la condivisione improvvisa di una connessione ottica.

Ed ecco che si ritorna a quella “contaminazione di sguardi” cui si è accennato in partenza. Ciò che Miike desidera raccontare con questa serie non si riduce “solamente” allo scambio di immaginari tra dimensioni industriali diverse. In Occhio per occhio è evidente sin da subito la volontà di adeguarsi alle strutture mitopoietiche del cinema coreano, a cui afferisce ogni referenza figurativa del racconto, dalla costruzione ipercinetica dell’intreccio all’indagine del sottobosco cittadino, fino alla stilizzazione della violenza. Ma a definire veramente il suo orizzonte comunicativo è proprio la risemantizzazione organica dello sguardo in un’industria altamente codificata come quella coreana. Diversamente da Tokyo Vice non c’è la visione del gaijin, dello straniero che si approccia all’alterità. Al contrario. Qui tutto passa per la traduzione interna al racconto del “tema scopico”. E avviene non solo da una prospettiva produttiva, ma anche da quella narrativa ed estetica. Se l’incursione nella serialità made in Corea già tematizza un adeguamento dello “sguardo giapponese” ad una realtà diversa, il racconto di due uomini che condividono la stessa vista non fa che consolidare questa sovrapposizione di visioni, di cui il testo ribadisce con forza la compatibilità. A dimostrazione di come Miike sia interessato a disinnescare la propria “nipponicità” in uno scenario industriale comunque distante, che ingloba ogni derivazione stilistica del prodotto.

Ma un artista dall’immaginazione così gargantuesca e singolare come Miike, non potrà mai occultare del tutto la sua voce. Per quanto in Occhio per occhio depuri il racconto di una sovrastruttura nazionalistica di stampo giapponese, non può comunque evitare di tracciare le coordinate del proprio senso poetico. Al punto che più ci addentriamo nel racconto, più i suoi segmenti sembrano rivelare una chiara appartenenza ai mondi iperbolici del suo cinema. Cos’è infatti la narrazione di un corpo-mutante che giunge all’immortalità attraverso l’ibridazione, se non la reiterazione contemporanea della storia di Full Metal Yakuza? E la declinazione ad esseri mostruosi dei “Connect” non ci parla della condizione di subalternità dei migranti cinesi della Black Society Trilogy? Insomma quel che Miike racconta, a Miike ritorna. È sempre il suo cinema, con la vocazione cosmogonica che lo contraddistingue, a tessere le fila dell’immaginario. Di un orizzonte costantemente aperto all’estensione – pensiamo a The Great Yokai War e The Mole Song – che sfida la stessa programmazione uni-stagionale su cui generalmente si basano i k-drama. Un’attitudine talmente totalizzante nella sua espressione, a cui anche la serialità coreana non può fare a meno di piegarsi. E godere della sua sconfinata genialità.

Titolo originale: Connect
Regia: Takashi Miike
Interpreti: Jung Hae-in, Go Kyung-pyo, Kim Hye-jun, Kim Roe-ha, Jang Gwang, Sung Hyuk, Kim Kyu-baek, Yang Dong-geun, Lee Tae-hyung, Oh Ha-nee
Distribuzione: Disney+
Durata: (stagione 1) 6 episodi da 40′
Origine: Corea del Sud, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7
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Il voto dei lettori
1.5 (2 voti)
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