Paolo Taviani, dopo Vittorio se ne va l’ultimo dei resistenti

Il cinema dei fratelli Taviani finisce qui. Dopo 62 anni di lavoro, di cui 56 insieme, ci ha lasciato lo scorso 29 febbraio anche Paolo. Il nostro ricordo.

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Il cinema dei fratelli Taviani finisce qui. Dopo 62 anni di lavoro, di cui 56 insieme, la coppia dei due fratelli di San Miniato ha definitivamente abbandonato le scene.
C’è un senso di vuoto che nonostante l’inevitabilità degli eventi sempre colpisce chi con artisti così longevi e così radicati dentro una coscienza che forse oggi sa di antico, è cresciuto, imparando a rielaborare la storia negli immaginari di una contemporaneità che spariglia le coordinate del tempo o a decifrare il presente attraverso le storie asciutte e forse fin troppo misurate ed esemplari di quel cinema al confine con la militanza politica esplicita e a volte anticipatore della storia.
È inevitabile che dei Taviani si parli al plurale tanto era inscindibile il rispettivo ruolo così sovrapponibile. Il 29 febbraio scorso ci ha lasciato Paolo Taviani, il più giovane dei due fratelli cineasti, dopo avere lavorato in questi sei anni da solo consegnando alla storia e alla filmografia familiare Leonora addio (2022), un film che ancora una volta, nel rispetto di una tradizione mai tradita, mette a fuoco l’ultimo mistero pirandelliano in una Sicilia che è stata sempre terra eletta per il loro cinema.
Oggi, qui in queste righe, si dovrebbe parlare dunque di Paolo Taviani. Ma ci pare davvero difficile smembrare il corpo unico di una fratellanza mai disunita e volutamente plurale, come raramente accade nel cinema per così lungo tempo. Sono stati tanto identici i percorsi e le condivisioni politiche tra i due registi e scrittori che si finirà, inevitabilmente di riflettere solo in tale direzione; anzi, in tali direzioni, di quel cinema che partiva sempre da un sostrato critico, da una analisi storica segnando così il legame culturale con ogni teoria critica della rivoluzione. In fondo questo è stato il loro baricentro poetico, inseguito per anni e lungamente elaborato in quel racconto travagliato che è stato il loro cinema popolare e colto, elitario e comprensibile, con gli alti e i bassi di un didascalismo a volte eccessivo, ma sempre votato ad una immediatezza nella direzione di una piena comprensibilità da parte di ogni possibile spettatore. Un cinema, il loro, che sembra derivare a pieno titolo da un certo formalismo di stampo novecentesco, ma è proprio dentro questo rigore formale che hanno sempre saputo reinventare il tema di una rivoluzione annunciata e mai avvenuta. A cominciare da quel I sovversivi (1967) – con un Lucio Dalla giovanissimo incontrato sul set di Carosello – che coglie i militanti comunisti di varia estrazione e cultura davanti al funerale di Togliatti e già in quel film si risente un’aria di fallimento rivoluzionario che segna non solo la storia della sinistra e dà vita alle degenerazioni future. Gli stessi temi si ritroveranno nel composto e appassionato San Michele aveva un gallo (1971) che, ispirato dal racconto di Lev Tolstoj Il divino e l’umano diventa una lunga indagine e riflessione sul dualismo marxismo e anarchia, socialismo e utopia. La morte nel finale di Giulio Manieri sancisce il fallimento definitivo di ogni soluzione rivoluzionaria, il tramonto dell’utopia. Quella stessa rivoluzione che in Allonsanfàn del 1974, diventa anticipazione di quel presente nel riflusso generalizzato e qui materializzato nella figura del Fulvio Imbriani che si ritira nella sua agiata condizione di ricco benestante da ogni rivoluzione tra le mura protettive della propria bella casa.
Dovrà essere approfondito e studiato questo cinema apparentemente così lontano dal presente quando invece servirebbe una più pervasiva elaborazione del pensiero, nel drammatico confronto di idee anche nell’ancora più severo confronto tra teoria politica e flusso storico dei fatti, un lavoro di costante interpretazione del presente attraverso quel passato a volte leggendario. È il tema di La notte di San Lorenzo (1982), uno dei film più radicati dentro la coscienza storica, dentro la loro memoria che così diventa storia collettiva, saggio critico sul presente, presagendo, fin da quegli anni le riletture non sempre

lusinghiere di quell’epoca e dei suoi protagonisti. Non hanno mai fatto mistero i due registi toscani della loro ideologia politica, iscritti per un certo periodo al Partito Comunista, riuscendo per tratti a tradurre nel loro cinema quel materialismo storico che, depurato dalle idee, guarda soprattutto al formarsi degli eventi attraverso l’azione popolare nei microcosmi del loro cinema che cerca nel frammento della storia la coralità che segna l’universalità. È il tratto dominante di Sotto il segno dello Scorpione (1969), film nato in pieno tumulto sessantottino che prefigura nella arcaicità delle forme e nella rigorosa, ma anche rigida, messa in scena la possibilità del realizzarsi dell’utopia, idealità corteggiata in quegli anni e smisuratamente lontana da ogni avvenire anche immediato.
Poi i due grandi film che hanno segnato la loro carriera, nobilitati da due premi importanti. Padre padrone del 1977, che ha fatto uscire il loro cinema da quel recinto per pochi conoscitori, evento al quale di certo ha contribuito la Palma d’oro al Festival di Cannes dello stesso anno. Il film con il suo sguardo brechtiano, lucido e senza finzioni melodrammatiche, restituisce nella sua elementarità storica la vicenda di Gavino Ledda in un ambiente di arretratezza e antica patriarcale dominazione. Cesare deve morire, Orso d’oro alla Berlinale del 2012, costituisce un altro passaggio nell’ottica della poetica dei Taviani in cui si materializza quella contiguità tra scene e vita, tra eternità degli eventi che determinano la vita degli uomini e sovrapposizione con le vite dei detenuti che interpretano il Giulio Cesare shakespeariano.

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Ma molti altri i titoli che hanno segnato la loro lunga carriera: il pirandelliano Kaos (1984) con la coppia di comici siciliani Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, La masseria delle allodole (2007) nel quale il loro sguardo si allarga ricomprendendo un episodio del genocidio armeno di inizio ‘900, Good Morning Babilonia (1987) un film sul genio italiano in piena rivoluzione cinematografica guidata da Griffith e per chiudere come non citare il filologicamente perfetto Meraviglioso Boccaccio del 2015, un omaggio alla Toscana, in un equilibrio tra forme narrative messe in scena e l’immancabile tensione verso la severità stilistica di un cinema sempre più rarefatto.
Questo cinema ha chiuso i battenti e ci resterà la lezione dei Taviani, una lezione di rigore stilistico, con tutto quello che significa di giusto e di sbagliato, una lezione che continua nel confronto della storia e della sua ciclicità inesorabile e una lezione di onestà intellettuale, che sicuramente apparteneva alla loro indole e al loro approccio all’arte del cinema in quella necessaria rilettura che andrà fatta della loro intera opera così controcorrente di questi tempi e per questo materia dissonante e necessaria.

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