#PesaroFF59 – Cocoricò Tapes. Incontro con Francesco Tavella e Matteo Vallicelli

A seguito dell’anteprima al #PesaroFF59, Tavella e Vallicelli, regista e compositore di Cocoricò Tapes, ci hanno parlato del doc e di quella che non era solo una discoteca, ma uno spazio di libertà

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Restituire l’atmosfera del Cocoricò negli anni ’90 non è facile. Non era semplicemente una discoteca. Era un luogo di libertà, nel quale chiunque veniva accettato non in virtù di una trasgressione, quanto per un senso generale di accettazione di sè stessi, prescindendo da qualsiasi etichetta. Cocoricò Tapes e i suoi autori condividono questo spirito in pieno. Utilizzando interamente materiali d’archivio analogici dell’epoca, non inseguono la storia del locale attraverso il tempo. Hanno creato, invece, un magma audiovisivo che restituisce l’atmosfera dell’epoca d’oro del Cocoricò in una successione di schegge che penetrano lo stesso fotogramma. Trapassato da tempi, suoni e spazi, lo spettatore viene contaminato dalla voglia spasmodica di verità (non tanto in senso assoluto, quanto nei confronti di sé stessi, anche solo per un attimo). In occasione della sua presentazione in anteprima alla 59ª Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, abbiamo incontrato il regista Francesco Tavella e il compositore Matteo Vallicelli.

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Cocoricò Tapes è un documentario che si presta a una visione non canonica.

Francesco Tavella: Mi sarebbe piaciuto vedere la gente ballare, lasciarsi trasportare. Poi uno vede delle sedie si tende a rimanere composti. Ci è piaciuto sentire il pubblico che rideva, che piangeva, che si emozionava. Poi, Matteo si è fatto un giro, da musicista, per capire soprattutto come andava con il sonoro, visto che i materiali di partenza erano molto grezzi. Il lavoro per renderlo fruibile è stato molto impegnativo.

Matteo Vallicelli: Da subito abbiamo pensato a un film che potesse esser portato fuori dalla sala. Succederà di presentarlo in spazi museali, festival musicali, contesti diversi. Questo è legato allo spirito del Cocoricò, che non era un evento frontale, nel quale si andava solo per fruire uno spettacolo. Perciò ci è sembrato naturale pensare al documentario anche al di fuori del contesto canonico della sala.

D’altronde il Cocoricò creava un ambiente performativo, quasi fosse un costante happening.

FT: La parola happening mi fa pensare a qualcosa fatto per qualcun altro. Il Cocoricò è stato anzitutto un team, capitanato dal grande direttore artistico Loris Riccardi, che ha portato cultura in un luogo che era dedicato a tutto tranne che a quello, il che è tutt’altro che scontato. A differenza di oggi, le persone ancora si parlavano, si toccavano. Tante persone strane in un contesto del genere non potevano che dar vita a qualcosa di strano e di bello. Questa è stata la chiave del successo di quel Cocoricò e il motivo per il quale non esiste più.

Che regole vi siete dati per giocare con il materiale? Non è una storia che procede in maniera lineare, è un documentario magmatico.

FT: Cocoricò Tapes ha avuto la fortuna o la sfortuna di nascere due settimane prima della pandemia. Ciò ha complicato la ricerca degli archivi, che ci facevano spedire o che chiedevamo di digitalizzare. Due persone fondamentali sono state Renzo Palmieri, un’autentica enciclopedia vivente del locale, e Serafino Vaccino che era una delle poche persone ad avere l’autorizzazione a entrare con la sua telecamera. Quindi il nostro archivio nasce anzitutto da persone che hanno amato il Cocoricò. Più che lavorare attraverso gli archivi, è stato l’archivio stesso a realizzarlo. Non ci convinceva l’idea di avere una struttura classica. L’obiettivo era farsi abbagliare dalle cose, creare un’esperienza visiva e sonora che potesse trasportare, indietro o avanti nel tempo, dovunque caspita tu come spettatore voglia andare. Senza, però, alcun effetto nostalgia. Ci siamo barcamenati in una marea di materiale molto grezzo, ma che poteva contenere dettagli che nemmeno i protagonisti ricordavano più. È una scelta che in qualche modo ci ha sollevato dalla responsabilità di spiegare. D’altronde con 5000 persone a serata per quindici anni, avrei potuto passare anni ad ascoltare e raccontare aneddoti. Magari raccolti in un libro sarebbero risultati interessanti, ma non sarebbe stata la scelta giusta per un documentario. Per questo ci siamo affidati ai materiali originali, raccolti lì in quel momento. Non un effetto amarcord, ma persone catturate in quel momento e in quel luogo, come un ragazzo a cui viene chiesto cosa sia per lui la trasgressione e che dice di non volerne sapere nulla. Ecco, quello è vero.

Non c’è un effetto nostalgia, ma una contaminazione. Penso soprattutto alla musica, che richiama quelle sonorità ma sembra spingerle oltre.

FT: “No effetto nostalgia è stato il nostro mantra. L’obiettivo era quello di creare un percorso visivo, visionario, psichedelico.

MV: Trovo molto bello che tu abbia usato la parola contaminazione. È un tema centrale e un input fondamentale per la scrittura delle musiche, che sono concentrate sui temi trattati, le sensazioni mentali e fisiche. Ho cercato di raccontare qualcosa che andasse di pari passo con le immagini senza fare qualcosa di techno-house direttamente legata al periodo. Abbiamo comunque lavorato cercando di immedesimarci nel team del Cocoricò di quel tempo, che portavano influenze dal mondo esterno, dalla cronaca alle ultime tendenze dell’arte contemporanea.

FT: La nostra collaborazione è stata il germe del documentario. Tutto è iniziato da un aperitivo a cui mi ha invitato Matteo, dicendomi che c’era un suo conoscente in possesso di un grande archivio analogico. La mia risposta immediata è stata: faremo un film esclusivamente d’archivio, senza dj. Poi ho dovuto lottare per mantenere fissi questi principi. Non aveva senso intervistare di nuovo alcune personalità: c’era già tutto nell’archivio. Lì c’è un ragazzo che dice che la musica è vita, che con lei puoi permetterti tutto e che ti fa sentire l’uomo del millennio. Quella cosa detta nuovamente a trent’anni di distanza, seduti su una poltrona e illuminati da un faretto, magari è vera allo stesso modo, ma l’effetto non sarebbe stato di certo lo stesso. Sarebbe stato tutto più pensato.

Interessante il cortocircuito temporale che vede Cocoricò Tapes, che si concentra su un locale accusato a lungo di promuovere l’edonismo, uscire proprio qualche giorno dopo la morte di Silvio Berlusconi.

FT: Sia il Cocoricò che Berlusconi sono elementi fortemente ambigui, che sono stati amati e odiati da moltissime persone. Entrambi hanno anche cambiato altrettanti individui. Credo che il legame siano i media. Loris Riccardi si cibava di satellite notturno, che è un po’ come oggi stare sul deep web. Eppure, il Cocoricò non ha mai fatto leva su tutto questo con l’obiettivo del controllo, che veniva ridato in mano a chi frequentava quel luogo. C’era una necessità di esserci. Questa era un’esigenza che non era propria sola di quelli “strani”. Per ognuno di questi ultimi, c’erano migliaia di persone che erano invece ascrivibili alla “normalità”, ma che lì sentivano di poter essere sé stessi. D’altronde tutti i locali che sono sorti attorno al Cocoricò sono stati creati per accogliere quelli che non riuscivano a entrare.

Un’ultima suggestione. Cocoricò Tapes sembra parlare indirettamente della nascita di Internet.

FT: All’inizio c’è, infatti, il suono di un modem. Internet nasceva proprio in quegli anni.

MV: Ed era ancora, come il Cocoricò, uno spazio libero, non di controllo. Al contrario, nessuno sapeva cosa farci esattamente. In questa incertezza, le persone comunque si connettevano. Così era per il Cocoricò.

FT: Cocoricò Tapes vorrebbe creare proprio delle connessioni. Mi piace immaginarlo in una serata tra padre e figlio, che crea uno scambio di ricordi e di suggestioni, magari per immaginare il futuro.

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