Segnali di vita, di Leandro Picarella
Una magnifica parabola sulla messa in discussione delle prospettive, che tocca una serie di questioni necessarie, la scienza e il mistero delle cose, il rapporto con gli altri. Freestyle
Conosciamo quanti e quali sono i moti della Terra? Cosa sappiamo del sole e delle stelle, delle fasi lunari? Da dove vengono gli elementi chimici che compongono il pianeta e le sue forme di vita, compresi gli uomini? Gli astri hanno un influsso sugli esseri viventi?
Sono queste le domande che il riluttante Paolo si trova costretto a fare, per un’indagine sulle più comuni “misconcezioni” riguardo la scienza. Tutto parte dalla decisione dell’astrofisico di passare alcuni mesi presso l’Osservatorio Astronomico di Saint-Barthélemy, in Val d’Aosta, per condurre delle ricerche. Durante l’inverno, normalmente la struttura è chiusa. Perciò la scelta di Paolo ha un che di radicale: vivere e lavorare in una solitudine pressocché assoluta, visto l’esiguo numero di abitanti della frazione di Lignan. A poco a poco, si comprende che la sua volontà di lasciare Milano per rifugiarsi in montagna, al di là delle esigenze scientifiche, nasce da motivazioni personali, dalla necessità di uno stacco netto da una quotidianità ormai insostenibile. Ma le cose della vita seguono direzioni impreviste. Un incidente alle strumentazioni blocca il lavoro di Paolo. Che è così obbligato a impiegare il suo tempo nell’indagine “sociale” sugli abitanti della vallata, richiesta espressa dei responsabili dell’Osservatorio. Eppure non sospetta che proprio da qui potrebbe venire la scoperta più importante. La spinta a riconsiderare le sue misconcezioni, per aprirsi al mondo e agli altri.
È questo, in fondo, Segnali di vita di Leandro Picarella. Una magnifica parabola sulla messa in discussione delle prospettive. Motivo che già emerge da quelle immagini iniziali, dichiaratamente evocative. Una veduta delle montagne e, subito dopo, in dissolvenza incrociata, una panoramica dell’Osservatorio e della valle. Ripresi dall’alto. Anzi, dall’Altissimo. E viene subito da chiedersi a chi appartenga quello sguardo. Se sia, semplicemente, l’obiettivo della macchina o se ci sia qualche altro segreto, qualcosa che potrebbe venire da lontano, dal profondo della galassia. Magari uno sguardo alieno o, forse, il grande occhio di un dio, di un Essere che attraversa spazio e tempo. Di certo, l’incipit ci conduce subito in un’altra dimensione, mentre un movimento inverso, sul finale, ci riporta in alto, “fuori”. Come ad accompagnarci dentro e fuori la fiaba. E questo già basterebbe a dissipare ogni nube sugli ormai sterili problemi di definizione, realtà, finzione, documentario, scrittura…
Sì, i protagonisti del film non sono attori, a cominciare dallo stesso Paolo Calcidese, per altro bravissimo, ricercatore e responsabile della divulgazione presso l’Osservatorio di Saint-Barthélemy. Mettono in gioco il loro quotidiano, il lavoro, la famiglia, e le incertezze e “ignoranze”, le attese, le solitudini, le fibrillazioni delle speranze. Severino, con le sue imbarazzate e tenerissime telefonate ad Agnese, Silvia in pena per le sue mucche, mentre suo padre si commuove ancora per lo “sguardo” di un animale venduto, Gabriele che fa giocare la piccola Agata… Sono tutti, a loro modo, eccezionali. L’umanità è una scoperta senza fine.
È chiaro che il racconto procede lungo una traiettoria stabilita. Che non mira, però, a un punto preciso, a fissare delle coordinate nette. Anzi, ha l’obiettivo di perdersi tra le vaghe stelle, nell’indefinito delle domande che non hanno risposta certa. Del resto, non potrebbe essere altrimenti, se si vuol provare a sfiorare il “mistero”, raccontare il piegarsi delle convinzioni, se “il tempo cambia molte cose nella vita/ Il senso, le amicizie, le opinioni”, come dice Battiato nella canzone che ispira il titolo del film…
Il cinema cristallino di Leandro Picarella assomiglia a poco altro. Sì, potremmo anche trovar dei nomi, Olmi, ad esempio. Ma il suo sguardo si libera e ci libera costantemente dai riferimenti. A volte, sembra avere una propensione al facile, l’incoscienza dell’ingenuità. Ma è l’altra faccia della sua vocazione fiabesca. La verità è che Picarella sfiora con delicatezza una serie di questioni dense, pesanti. Alcune fuori moda, forse. Ma proprio per questo necessarie. La scienza e la fede, il concreto della materia e la verità dello spirito, il nostro rapporto con la tecnologia e le nuove prospettive (irresistibili i dialoghi tra Paolo e il robot Arturo), ma soprattutto il rapporto con gli altri e con il profondo di sé stessi. E la semplicità di tono di Picarella sembra venire da secoli di saggezza e di conoscenza. Dalla consapevolezza millenaria di una realtà ulteriore, di una connessione organica tra l’uomo, gli esseri viventi, le cose e l’universo. Una consapevolezza che nutre le intuizioni inspiegabili e le divinazioni. Tutto respira e ogni movimento del microcosmo riflette i meccanismi del macrocosmo. Piaccia o meno, se davvero siamo polvere di stelle, come possiamo pretendere di essere slegati dai copri celesti? La lunghezza d’onda della luce, il suo colore, sono un segno dell’energia e del tempo. Come i ricordi. I nostri desideri e i nostri disastri sono immagini di stelle mancanti o cadenti. Parlano di distanze siderali e di viaggi intergalattici. Tutto è scoperta. Paolo si risveglia, come il microrganismo che osserva al microscopia. E scopre di doversi confrontare con altre ragioni che vanno oltre la ragione, le categorie limitate del dimostrabile. Ritrova un’empatia, una capacità di condivisione, riconosce la possibilità di vivere a cuore un po’ più aperto, oltre le sovrastrutture… Impara. Come noi impariamo, da lui e dagli altri. “Ci sono più cose in cielo e in terra…”