Taxibol, di Tommaso Santambrogio
Presentato in anteprima italiana al Festival dei Popoli di Firenze, il film si muove nel segno di Lav Diaz ed è espressione di una concezione “interventista”, politica del cinema
“Abbiamo imparato a comprenderci nonostante le barriere della lingua”. È il concetto a cui sembra tenere di più Lav Diaz, nel suo dialogo con il tassista Gustavo, che lo sta accompagnando chissà dove, per le strade di Cuba. E in questa prima parte di Taxibol, Tommaso Santambrogio gioca proprio sul registro della lingua, sul primato fondamentale della parola nella costruzione di un senso e di una possibilità di intesa. Il regista filippino parla in inglese e Gustavo gli risponde in spagnolo e i due sembrano comprendersi perfettamente. Come dice Lav Diaz, la Torre di Babele è abbattuta dalla “familiarità”, dalla confidenza, dalla capacità di stabilire relazioni. Una capacità che si basa sulla condivisione delle esperienze del vissuto: il più delle volte una sofferenza, una perdita, cioè un dolore che non si barrica nella paura e nella chiusura, ma che apre all’altro, disponendo alla comprensione. C’è, a esser pignoli, un rovesciamento del racconto biblico (proprio la dispersione delle lingue segna il fallimento della costruzione della Torre di Babele), ma l’immagine di Lav Diaz resta comunque efficace. È l’espressione di una tensione battagliera, la volontà di predicare una visione profondamente umanista che si opponga alle storture del mondo. Ed è la stessa tensione che nutre un’idea di cinema come militanza, lotta politica, impegno, strumento per la rifondazione di una realtà migliore. Che è la questione fondamentale del XXI secolo: “fanculo l’arte per l’arte”.
Tommaso Santambrogio, a modo suo, sposa questa concezione “interventista” del cinema. Non a caso, il suo sguardo resta concentrato su Cuba, ancora un luogo centrale della riflessione politica contemporanea. Lì aveva già girato il corto Los Océanos Son Los Verdadores Continentes (2019), che è alla base del suo primo, omonimo lungometraggio, presentato all’ultima Mostra di Venezia. Taxibol, che ha esordito lo scorso aprile a Visions du réel e ha avuto la sua anteprima italiana al Festival dei Popoli, si colloca lungo il percorso. Un film che sta a metà già nella durata, 50 minuti, ed è come una specie di diaframma che agisce per contrazione e distensione. Sotto l’influsso carismatico di Lav Diaz, Santambrogio stabilisce una connessione tra Cuba e le Filippine, un “dialogo” tra due realtà distanti, ma che condividono i disastri di un passato coloniale che ha lasciato le sue fractures, le sue ferite non rimarginate. Allarga le prospettive e moltiplica i registri, ma li condensa in tempi ristretti. E soprattutto li costringe in una cesura netta, che è il segno più evidente della ferita, appunto. Perché c’è uno scarto visibile tra l’approccio documentaristico, immediato, vitale, della prima parte, quella del dialogo tra Lav Diaz e Gustavo, e la rigidità di messinscena della seconda, che si fa carico di testimoniare un senso di morte, il lato B della storia, quello oscuro. Una seconda parte che si apre quando Lav Diaz svela uno dei veri motivi del suo viaggio. Ritrovare il vecchio generale Juan Mijares Cruz, uno dei collaboratori più stretti del dittatore Marcos, rifugiatosi a Cuba dopo il crollo del regime. E ucciderlo per vendicare il suo popolo oppresso. Ucciderlo con la forza del cinema, innanzitutto, con l’arma dell’obiettivo.
Ecco, dunque, che Taxibol cambia completamente registro. Forse con un eccesso di schematismo, eppur con efficacia. Nel seguire la ripetitiva quotidianità del Mostro, Tommaso Santambrogio si concentra sui gesti, sulla meccanica dei rituali. Ma soprattutto cancella completamente la parola. Non c’è più dialogo, non c’è più possibilità di relazione. Neanche di conflitto, probabilmente, perché tutto è congelato nell’assoluta immobilità di una gerarchia indiscutibile, nella distanza abissale tra il generale Cruz e i suoi dipendenti, la domestica, il sovrintendente della piantagione, i contadini, osservati e controllati dall’alto con un cannocchiale. Ma questa glaciale ripetitività non è solo l’espressione del Potere, quanto il segno di una condanna alla solitudine e di un esaurirsi inesorabile di ogni slancio vitale. Il silenzio assume un peso opprimente. Le uniche cose che si sentono sono i rumori, i versi del demonio che mangia, che, disgustato, allontana il piatto, che accende il suo sigaro e compiaciuto, ricontrolla i conti. E poi la sera, davanti la TV, ritrova le immagini e le voci del passato, i materiali di archivio dei tempi di Marcos (ed è qui che il documento torna a riprendersi il suo spazio). Eppure le immagini più atroci dei soprusi, delle repressioni e delle ingiustizie, non le vedremo mai. Attraversano i sogni di Cruz, popolano gli incubi che lo soffocano ogni notte. Anche se per noi quelle immagini rimangono “mancanti”, ne avvertiamo comunque l’eco terribile. Ma soprattutto possiamo vedere la paura animalesca del Mostro. L’aguzzino era uno spettatore impassibile, crudele e ora è svelato in tutta la sua miseria. Ed è forse in questi istanti che si consuma la vendetta più spietata e sacrosanta dello sguardo di Santambrogio.