Taylor Swift: The Eras Tour, di Sam Wrench

Un concerto che è l’apice e la messa in abisso del pop, della sua immagine e del nostro rapporto con l’evento “dal vivo”. Regista, coreografa, attrice, la Swift è ormai “oltre” la sua stessa musica

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“Sono una millennial che vive sul divano, sepolta dalle serie tv, ma vorrei essere una dama vittoriana”, dice Taylor Swift in uno dei tanti momenti di confronto col pubblico del suo The Eras Tour, mastodontico concerto summa della sua carriera: centinaia di date tra America ed Europa, poco meno di tre ore di durata ripartite in nove miniset dedicati ai nove album della sua filmografia. E poi scenografie, performer, ologrammi.

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Ma la Swift ha ancora bisogno di un pubblico attivo?

In realtà nel momento in cui il The Eras Tour arriva al cinema, nella regia video di Sam Wrench, che in 160 racconta la residency che la Swift ha tenuto a Los Angeles nell’agosto scorso, il film si rivela strumento esseziale per riflettere, da un lato, sullo status della Swift oggi, sul suo elemento performativo, sul suo rapporto con lo stardom del pop contemporaneo e, di converso, per analizzare il rapporto che il suo spettatore ha con la sua immagine (e con le immagini tutte, si potrebbe dire).

Qui l’occhio della macchina da presa, ancora, come nello straordinario concerto finale di Ziggy Stardust catturato da Pennbacker, diventa elemento fondamentale per raccontare lo svelamento di tutto il sistema che regge la Swift.

E da questo punto di vista a risaltare di più sono le strane prospettive che il film usa per raccontare la performance della Swift. Perché in Taylor Swift: The Eras Tour non esiste controcampo. C’è sempre e solo la Swift al centro della scena e il pubblico esiste come fugace apparizione. Un gruppo di spettatori si braccia cantando, una ragazzina si commuove, poi poco altro.

Meglio, lo spettatore esiste ma solo in quanto massa, elemento da manipolare a piacimento (e dopotutto il concerto si apre con lei che gioca a fare la “ola” con il pubblico). Si potrebbe partire da qui per raccontare l’affascinante paradosso del The Eras Tour riattraversato da Sam Wrench, un progetto attraverso cui la Swift vorrebbe raccontare la sua autenticità, la sua umiltà al di là di qualsiasi successo ma in cui non può che apparire come entità “oltre”, oltre il pop, oltre la sua stessa immagine. Beninteso qui qualsiasi discorso sulla popstar sacerdotessa, che officia “riti purificatori” per il suo fandom pare già vecchio. La Swift dà già per scontato di esserlo (lo dice anche lei al suo pubblico: “I’m so powerful”) e dopotutto proprio l’iniziativa “The Eras” al cinema pare l’apice di un processo di televangelizzazione, con il Verbum Swiftiano che arriva a tutti coloro non si sono potuti permettere i costosi biglietti dei live.

Piuttosto, Taylor Swift è soprattutto una demiurga dello spazio scenico e delle sue linee di tensione, perno centrale di un contesto che prova a inglobare in sé i meccanismi del cinema massimalista (e forse ci riesce, come sottolineava Hollywood Reporter). E allora, in prospettiva, Wrench riesce a catturare momenti di straordinario, vertiginoso straniamento, come quando, durante un brano dal set di 1989, consegna il suo cappello ad una bambina tra le prime file. E tutto sembra un gesto spontaneo, se non fosse che quando l’oggetto passa da una mano all’altra il corpo di ballo alle sue spalle sembra chiudere una coreografia. E allora tutto torna a far parte (anche inconsapevolmente, per la bambina) dello show. malgrado il tentativo di tenere costante la comunicazione con il pubblico, di raccontarsi “come una di loro”. Taylor Swift non è più parte del suo pubblico, è, al massimo, entità che si nutre dei loro continui sguardi, spesso impegnata a cantare, non a caso, su veri e propri piedistalli. E allora quei momenti minimali, con piano, voce, chitarra, attraverso cui la Swift vorrebbe recuperare l’ingenuità folk dei primi album sembrano null’altro che i prodromi di un nuovo ruolo da interpretare. Dopotutto la Swift in quasi tre ore di concerto gioca con il mondo della performance, veste i panni di personaggi che si avvicendano in scena (la cantautrice ’70s, l’emula di Beyoncé, la liceale hipster) e si diverte ad abitare i mondi evocati dai suoi dischi, che prendono vita tra le scenografie. E tutto sembra comunque già vecchio se è vero che la Swift pare riferirsi già ad un altro modo di intendere, di vivere, di “fare”, letteralmente, la scena. Come quando, prima di Tolerate, prepara da sola il tavolo che sarà oggetto scenico fondamentale per l’esibizione e poi abita lo spazio interagendo con il performer che divide la scena con lei come la protagonista del brano che sta cantando, regista più o meno occulta di una performance (tra le tante) che sembra tanto un videoclip tutto mentale quanto una sorta di installazione di arte contemporanea.

È un altro dei non luoghi del contemporaneo, il The Eras di Taylor Swift, che racconta, forse soprattutto, la nostra profonda dipendenza dalle immagini ma soprattutto la difficoltà sempre più evidente di pensare al pop in un modo che vada al di là dell’immaginario massimalista.

 

Titolo originale: id.
Regia: Sam Wrench
Distribuzione: Nexo Digital
Durata: 160′
Origine: USA, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
Sending
Il voto dei lettori
4 (2 voti)
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