TORINO 30 – Un bilancio finale
Ricorrono alcuni temi in questo Torino 30 – meccanismi di potere, nuove separazioni di classe, paura dello straniero, ansie apocalittiche, claustrofobia – che intelligentemente si dimostra aperto e sensibile al presente di angoscia e insicurezza in cui viviamo. Un Festival che ha chiuso i battenti con un ottimo bilancio di pubblico e fieramente metropolitano
di Pietro Masciullo e Margherita Palazzo
Dall'agorafobia come reazione alla violenza incontrollata delle periferie dell'irlandese Citadel all'assedio condominiale di Tower Block, passando per dimensioni intime (la psicopatia familiare di Chained, il patto alcolico di Smashed) Torino ha raccontato il potere dell'autorità che trasforma facilmente uomini in mostri (la tortura psicologica di Compliance) o i paradossi consumistici/razziali dei nostri tempi (il divertente cannibal dramedy russo Shopping Tour) lasciando la parte più facile da digerire al gioco intellettuale (Wrong) o al tentativo di frullare i generi ispirandosi al mondo di Joe Lansdale (Christmas with the Dead). Splendori cinematografici dei generi tornano nella psichedelia blasfema e romantica dallo spirito seventies di The Lords of Salem e in Maniac, dove lo slasher anni '80 diventa moderno saggio sull'incomunicabilità dei corpi. Il presente, e speriamo, non il futuro, spettano a The Land of Hope, dramma postnucleare girato con la malinconia di un western e l'umanità toccante dei vecchi capolavori nipponici.
Il CONCORSO ha proposto opere di buon livello, senza troppi innamoramenti a prima vista. Forse proprio questa selezione così livellata, con una qualità di fondo che non scende (quasi) mai oltre la sufficienza, esprime il rischio di fronte al quale si trova il cinema indipendente, specie statunitense (e meno in quello orientale, si veda l'indiano I.D.): una incapacità di liberarsi dall'adorazione di grandi modelli e di trovare un proprio linguaggio, magari meno estetizzante ma più vitale, particolarmente evidente nel wannabe-Badlands Sun don't Shine, e in parte in Pavilion, premio speciale della Giuria. A smarcarsi da questo pericolo riescono soprattutto i film capaci di instaurare una dialettica poetica e spietata tra paesaggi inospitali e emozioni inespresse, come il vincitore Shell dello scozzese Scott Graham (e come del resto il vincitore dello scorso anno, Winter's Bone).
Rispettabile, ma con dei limiti è anche la commedia britannica The Liability, mentre tra gli italiani Arthur Newman esplora il sogno americano, la Passione sarda di Su Re risulta un po' fredda e l'autobiografia di Smettere di fumare fumando decisamente miope. In competizione, spiccano anche i temi del lavoro, e del passaggio dall'adolescenza all'età adulta, difficoltoso sia in luoghi e situazioni aspre, dove si mescola alle istanze del cinema della (nuova) crisi (Terrados, Una Noche, Až Do Mesta Aš) sia nella metropoli più o meno benestante, di oggi e di (l'altro) ieri (Am Himmel der Tag, Call Girl).
Nella sezione più tradizionalmente aperta a ogni tipo di pubblico, che a Torino non si chiama Fuori Concorso bensì FESTA MOBILE, quest’anno si è confermata la tradizionale fucina dell’indie americano (dal frizzante Ruby Sparks alle bizzarrie di Imogene per arrivare agli abissi amorosi di 28 Hotel Rooms e alla commovente ricerca di una liberazione sessuale in The Sessions) associata a qualche sguardo altro (l’Amleto cine-teatrale in 3D di Filippo Timi e Felice Cappa, la Biancaneve muta di Pablo Berger, ecc). In fondo questa dovrebbe essere la sezione più glamour e non sono mancano i grandi nomi: Anna Karenina di Joe Wright, Ginger e Rosa di Sally Potter o Quartet di Dustin Hoffman. Ma ciò che conta più di tutto in un Festival come Torino è rilanciare la sperimentazione sui linguaggi anche in una sezione pensata per il grande pubblico, e allora non si può non accogliere come una felice idea quella di aver ospitato la strepitosa incursione nel terreno dell’ideologia nella seconda guida perversa firmata Slavoj Zizek.
Ottima selezione quest’anno anche per TFF DOC, una sezione ricchissima di immagini e suggestioni da ogni parte del mondo, che intelligentemente evita la ghettizzazione del documentario proponendo percorsi ibridi che ne ridiscutono i confini con la fiction: pensiamo a tre bellissimi viaggi filmati come Anija di Roland Sejko (lo spostamento dell’uomo come eterna migrazione), Leviathan di Lucien Casting-Taylor e Verena Paravel (la fluidità del mare che ospita l’incontro/scontro uomo/animale) o la sperimentazione sull'immagine di Variation Ordinaires di Anna Marziano.

Un Festival che non ha deluso. Torino 30 chiude i battenti con un ottimo bilancio di pubblico (+16,25% negli incassi), con un aumento sensibile negli accrediti (+14,8%) e segnando il successo in ogni proiezione della retrospettiva sul grande (e forse dimenticato) Joseph Losey. Un Festival che conferma in pieno quel salutare equilibrio tra anima popolare e vocazione alla scoperta di linguaggi giovani e periferici. Una manifestazione fieramente metropolitana, che azzera tappeti rossi e divismo autosufficiente per aprire la città alla gente e al cinema. Fuori da ogni polemica (affaire Loach compreso) e attendendo con serenità ogni decisione riguardante la nuova gestione del post-Gianni Amelio, non possiamo non sottolineare che il Festival di Torino tra alti e bassi ha comunque mantenuto negli anni una identità solida e sempre riconoscibile nel panorama festivaliero europeo. Identità che anche in questo suo trentennale ha saputo a suo modo rilanciare e difendere.