(unknown pleasures) 5 Days of War, di Renny Harlin

5 days of war

Questo è un film interessante, perché produce continui ragionamenti oltre le sue stesse immagini. Chiaro che i fenomeni a cui ci si riferisce (la crisi russo-georgiana del 2008) sono infinitamente più complessi. Ma qui si manifesta anche la forte e ambigua consapevolezza che la guerra negli anni '00 non esiste se non nella sua immagine. Renny Harlin è un regista sempre più in “superfice”…

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Questo è un film interessante, un indubbio unknown pleasures, perché sa scatenare ancora dubbi e ragionamenti oltre la superficie delle sue stesse immagini. Innanzitutto si ritorna ad una concezione “novecentesca” (echi degli anni ‘80 reaganiani) nel modo di utilizzare il racconto filmico convogliando punti di vista e ideologie rocciose, rimettendoli in discussione nella loro platealità. 5 days of war racconta i difficilissimi cinque giorni di guerra dell’agosto 2008 (in un mondo distratto dalle Olimpiadi di Pechino) tra la Georgia e la Russia, escalation militare nata nei territori della provincia separatista di confine dell’Ossezia del Sud. Renny Harlin (regista da sempre orgogliosamente “superficiale”) mette al servizio di questa operazione la sua collaudata retorica e il suo adrenalinico senso dello spettacolo. La velocità. L’inizio del film è decentrato: l'Iraq, la guerra. Un frammento folgorante dove l’immagine cinematografica filtrata da una piccola handycam in mano a un personaggio (i protagonisti sono una troupe freelance che gira un documentario) “diventa” il nostro film per poi essere accecata da una pallottola. In uno stacco di montaggio, fulmineo controcampo, si ri-consegna il testimone al “cinema” come tradizionale macchina di sublimazione dei traumi storici in “film”. È veramente tutta là la grande consapevolezza del regista nel mettere in scena il vecchio war movie in questo tempo di sopraggiunta ipermediazione.

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Ora: è chiaro che i fenomeni a cui si fa riferimento sono infinitamente più complessi di quanto la semplificazione estrema di questo film faccia “immaginare”; e ancora: è chiaro che il valore testimoniale di queste immagini (nei confronti dei tragicissimi fatti del 2008) risulti quantomeno dubbio sposandone incondizionatamente un unico punto di vista. Ma non è questo in discussione. Perchè quel che c’è di interessante in quest’operazione è la fortissima consapevolezza – molto più ambigua di quel che il film esplicita – che la guerra di oggi “non esiste” se non in immagine. Che la si combatte ormai “in diretta”, filtrata dall'occhio manipolabile dei media, nell’unico“campo di battaglia capace di mutare i destini della Storia: i nostri schermi (Tv, Pc, e mille altre paittaforme). Da questo punto di vista il film di Harlin si inscrive in pieno in quella profonda mutazione di genere che il war movie contemporaneo ha manifestato negli ultimi anni: da Nessuna Verità a Redacted, dallo strepitoso dittico iracheno di Kathryn Bigelow arrivando a Green Zone di Greengrass. Tutti film che hanno ridiscusso il visibile spostando l’accento sull'ambigua percezione mediale della guerra. Ecco: superata l'architrave retorica manifesta ed elementare di questo film, se ne possono vedere chiaramente le tracce. C’è una piccola e spettrale sequenza che “mostra” molto più di quel che “dice”: una giovane sposa con il vestito bianco insanguinato scende le scale e riabbraccia commossa la sorella; questo piccolo fatto privato viene catturato come un riflesso condizionato dall’occhio di una telecamera usata come un'arma puntata sul fatto. Il sicero abbraccio diventa qualcos’altro sotto i nostri occhi, diventa un’immagine-informazione potenzialemnte riutilizzabile nell’arena mondiale. Ecco: l’ossessione che i personaggi (indistintamente, da tutti e due gli schieramenti) manifestano per le “memory card” come le uniche armi oggi capaci di cambiare il destino della Storia è veramente un’eredità spaventosa che il nostro tempo ci consegna. E Renny Harlin (che piomba sui personaggi sempre dall'alto, oggettivando ogni sguardo) resta un regista molto più consapevole di quanto “superficialmente” non manifesti.

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