Uomini e cobra, di Joseph L. Mankiewicz

Il penultimo film di Mankiewicz stravolge il genere e abbandona ogni registro drammatico, diventa una commedia che riflette sulla nascente idea di capitalismo. Oggi, ore 23.05, Iris

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Nel 1970 il western non esiste quasi più, o meglio il cinema western diventa un’altra cosa, assume prospettive differenti e con un glorioso passato alle spalle, ora che i tempi sono mutati, si può cominciare a definire classica l’epoca del mito dei cowboy e dell’ovest.
Forse per riflettere su Uomini e cobra, penultimo impegno della carriera di Joseph L. Mankiewicz di origine ebrea e polacca, ma nato negli Stati Uniti nei primi anni dello scorso secolo, si deve necessariamente riflettere, in linea con le premesse, su quale fosse lo stato dell’arte del western in quel 1970 anno di uscita del film.
Il western è stato sicuramente il genere che ha subito i mutamenti più radicali in virtù di un clima sociale che in quegli anni si era fatto decisamente più sensibile verso la storia e i bisogni dei nativi americani. Fu in quegli anni che venne scoperta la loro cultura con la conseguente assunzione del loro mondo tra i beni preziosi da conservare.
In questo clima, in quello stesso anno di Uomini e cobra, si realizzavano altri film che più incisivamente avrebbero marcato questi sentimenti in una sorta di revisionismo storico accompagnato da doverosi mea culpa che queste storie rappresentavano e che sotto altro profilo sancivano il tramonto di ogni arroganza yankee, il tramonto di ogni desiderio di nuova frontiera. Il western nel rileggere se stesso incontrava la modernità per potere gattopardescamente, trovare nuova linfa per sopravvivere come genere. A dare la svolta ci furono nel 1970: Soldato blu di Ralph Nelson, Piccolo grande uomo di Arthur Penn, Un uomo chiamato cavallo di Elliot Silverstein e La ballata di Cable Hogue di Sam Peckinpah, si ritiene bastino questi titoli per dare un complessivo panorama di quello che aveva costituito un radicale e irretrattabile mutamento delle fondamenta originarie del genere. In Italia, la dove il mito era stato alimentato con massima cura (Leone), ma non era nato, si provava a rinsaldarlo con un tocco di leggerezza e i nostri Bud Spencer e Terence Hill davano vita, con Lo chiamavano Trinità, alla saga dello sfaticato mariuolo del west italiano.
Uomini e cobra si aggiunge a quella lista e se il film Mankiewicz nulla ha a che fare con gli indiani e con la frontiera, sicuramente ha a che fare con una certa idea di nascente capitalismo, che d’obbligo fa rima con cinismo.
Quattro antefatti per i quattro personaggi principali. Paris Pitman (Kirk Douglas) con la sua banda svuota la cassaforte in una casa di un benestante, ma per tenersi il cospicuo bottino fa fuori i suoi complici, nasconderà in una buca i soldi che saranno protetti dai cobra che lì vivono indisturbati; Floyd (Warren Oates) viene arrestato dopo una sparatoria con lo sceriffo Lopeman (Henry Fonda); Coy (Michael Blodgett), invece, viene arrestato per avere ferito il padre della ragazza con cui amoreggiava e Cyrus (John Randolph) e Dudley (Hume Cronyn), una coppia di imbroglioni che vengono scoperti a prendere per il naso il pubblico di creduloni che segue i loro artefatti esperimenti e  portati in manette. Si ritroveranno tutti in un penitenziario dell’Arizona. Il vecchio sceriffo Lopeman diventerà direttore del carcere e poi anche amico di Paris.
Mankiewicz, sceneggiatore di valore, con quattro Oscar all’attivo, questa volta affida la sceneggiatura a Robert Benton e David Newman che qualche anno prima avevano sceneggiato Gangster story di Penn. Con la loro scrittura e la complicità della regia il film, stravolgendo totalmente il genere e abbandonando ogni registro drammatico e qualsiasi altro simile che nell’immaginario si possa credere adatto alla storia, diventa quasi una commedia addomesticata. In fondo lo scenario dentro il quale la vicenda si sviluppa è quello di un penitenziario e alcuni dei protagonisti sono pronti per essere giustiziati di lì a poco. Una storia, dunque, dove muore un sacco di gente, di detenuti che in condizioni pessime espiano le loro colpe. Eppure, nonostante tutto questo, il registro è quello di una commedia, si ride perfino e la baraonda finale che darà vita all’epilogo diventa una specie di sarabanda caotica con insistiti tratti di semplice comicità secondo le antiche regole dello slapstick. È del tutto evidente che lo scopo del film non è quello di raccontare una storia di galeotti, per cui è inutile insistere sui toni drammatici e come spesso accade anche le uccisioni non provocano particolari emozioni nello spettatore.

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Mankiewicz non è assolutamente interessato a costruire una storia legata al West, di cui sfrutta esclusivamente l’ambientazione, quella stessa che con il sapore di epopea storica è classicamente entrata a fare parte della fondazione degli Stati Uniti. Un contesto che gli consente di attingere a quelle consolidate radici per decifrare – come sempre – il presente dell’America dell’epoca, con tanto di sottile e maliziosa critica, senza sapere tutto quello che sarebbe venuto dopo, cioè oggi.
Tutto nel film si gioca su due fronti, quello del dominio e quello del denaro. Le due componenti essenziali di ogni ascesa che si sviluppi all’interno delle dinamiche del capitalismo. Dapprima il cinismo per l’esercizio del potere si manifesta in Paris che non si fa scrupolo di fare fuori i suoi complici per impadronirsi della ingente somma rubata al danaroso Lomax; lo stesso criterio utilizzerà lo stesso Paris quando si tratterà dell’evasione. Il suo cinico calcolo avrà fatto fuori un poco di suoi compagni di pena che hanno condiviso il progetto e chi non sarà stato eliminato dagli eventi lo sarà dalla sua pistola. Qui il film svolta e mostra tutta la sua drammatica verità, ancora una volta il desiderio del denaro sarà passato sopra le vite delle persone. Non c’è pietà se si vuole costruire una fortuna, la regola è sempre la stessa: il pesce più grande mangerà il pesce più piccolo.
Sotto un altro aspetto il tema del potere e del dominio si sviluppa all’interno del rapporto tra l’astuto, ma un po’ gradasso, Paris e il silenzioso, ma ancora più astuto e infido direttore del carcere ed ex sceriffo Lopeman, vero cobra che agisce con rapida ed esiziale efficacia. Tutto si realizza nel gioco di mosse e contromosse che silenziosamente e sotterraneamente si accende tra i due non appena Lopeman capisce che Paris nasconde da qualche parte una bella somma di denaro. Paziente, cinico e inarrestabile il vecchio ex sceriffo muove le sue pedine e con un colpo di fortuna raggiungerà il suo scopo.
Il capitalismo è salvo, un altro pesce grosso si fa avanti sul grande palcoscenico messo in piedi dal denaro e un altro pesce piccolo sarà eliminato dalla competizione che continuerà a mietere le sue vittime, con il cinismo e la spietata avidità di sempre.

 

Titolo originale: There Was a Crooked Man
Regia: Joseph L. Mankiewicz
Interpreti: Kirk Douglas, Henry Fonda, Warren Oates, Hume Cronyn, Burgess Meredith, John Randolph, Michael Blodgett
Durata: 125’
Origine: USA, 1970
Genere: western

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.6 (5 voti)
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