Wolfkin, di Jacques Molitor

Dai produttori di Conann di Bertrand Mandico, Wolfkin più che mescolare dramma e horror li intreccia con la perizia di una procedura e quindi senza appagare né appagarsi.

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All’inizio di Wolfkin siamo in Belgio, dove Elaine cresce da sola con grande difficoltà suo figlio Martin. Il ragazzo ha importanti difficoltà comportamentali, tanto che la madre si convince a rivolgersi alla famiglia del padre, di cui si sono perse le tracce tempo prima. Una famiglia ricca, che vive in un maniero fuorimano e che offre subito il suo aiuto. Il loro atteggiamento da ambiguo, coi nonni che prediligono punizioni, atteggiamenti autoritari e pressioni per la conversione di Martin, si fa presto apertamente inquietante o ostile, come con le minacce del fratello dell’ex-marito di Elaine. Le loro macabre abitudini servono a reprimere la loro vera natura: quella di esseri mutaforma. Martin si avvicina pericolosamente a quella che somiglia sempre più a una setta e sua madre Elaine sembra non potere nulla, ma non si arrenderà lo stesso.

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Anche il genere cinematografico e in special modo l’horror, con le sue convenzioni e i suoi stereotipi, possono trasformarsi da nido a gabbia dorata. C’è chi ne lucida le sbarre, alla ricerca di nuove sfumature e quindi nuove regole, come la Blumhouse; c’è chi invece cerca di fuggire attraverso la botola dell’inconscio e i labirinti della mente, come la A24. Non siamo però negli USA, ma nel Lussemburgo (in co-produzione con il Belgio) e la produzione è la stessa che ha portato Bertrand Mandico a Cannes con Conann. Les Film Fauves e il regista Jacques Molitor, al suo secondo lungometraggio di finzione, scelgono con Wolfkin un atteggiamento in qualche modo intermedio.

C’è una scena che appare emblematica sin dal momento in cui la si sta guardando per la prima volta. “Nelle tempeste che attraversano la nostra epoca, la famiglia è un riparo”, afferma sicura l’anziana seduta sul divano, mentre stringe la mano di suo marito. “Vede, mia moglie era come lei all’inizio”, dice quest’ultimo con un sorriso che non vorrebbe risultare così freddo a Elaine, distorta da un grandangolo. Suo figlio di dieci anni, Martin, si avvicina ai suoi nonni paterni e rivolge alla nonna una domanda: quanto gli vuole bene? “L’amore non si può quantificare piccolo mio. O c’è o non c’è”. Martin scatta in piedi dal divano. La sua attrazione per la foresta è troppo forte. Il nonno bloccala sua corsa a perdifiato proprio al limitare del bosco. “Questa è la tua casa, Martin. Le bestie non hanno una casa”. Una pacca sulla spalla e il nonno lo riporta, docile, a quella che è, praticamente, la sua camera di tortura.

È chiaro quindi come siano presenti due anime differenti che non convivono ma si intrecciano. Accanto a una trama da manuale dell’horror e una serie intrecci familiari, c’è il dramma del rapporto tra una madre e un figlio, delle distanze che si aprono con la crescita e di come colmarle. È quest’ultima linea forse la più riuscita di Wolfkin, a dispetto di quanto sia sviluppata. Sicuramente è quella che un minimo emerge dalla marea di citazioni e reference (da Alfred Hitchcock fino a Yorgos Lanthimos, passando per Jennifer Kent) usate per impacchettare un prodotto. Così, Wolfkin rimane nel mezzo, composto, non si eleva né si cappotta del tutto (come faceva, a seconda dei punti di vista, temere o sperare una quasi scena di zoofilia). Alla fine si ha la sensazione di trovarsi davanti al risultato di un’operazione, una cifra, una procedura. Ottimo, ovviamente, da dare in pasto a qualche algoritmo consigliere di un servizio streaming. Dopo, però, il passaggio in sala a partire da ieri, quando il lupo dovrà, come un coyote, rovistare tra i magri resti lasciati dal Barbenheimer.

 

Titolo originale: Kommunioun
Regia: Jacques Molitor
Interpreti: Louise Manteau, Victor Dieu, Marja-Leena Junker, Jules Werner, Marco Lorenzini, Myriam Müller
Distribuzione: Satine Noir
Durata: 90′
Origine: Lussemburgo, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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Il voto dei lettori
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